Quantcast
Channel: Jorge Gonzalez Izquierdo – Pagina 176 – eurasia-rivista.org
Viewing all 61 articles
Browse latest View live

«Napolitano garante della subordinazione agli USA» – D. Scalea all’IRIB

$
0
0

Lo scorso due giugno il nostro redattore Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato da Radio Italia, emissione italiana dell’IRIB, a proposito delle celebrazioni per l’anniversario della Repubblica e del ruolo italiano in Libia. Seguono audio e trascrizione integrale dell’intervista.

Per celebrare la festa della Repubblica, che quest’anno cade nel centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, a Roma sfilerà la parata militare che sarà chiusa dalla Frecce Tricolori. In Libia altri aerei da guerra lasceranno una scia d’un solo colore: il rosso sangue. Qual è la sua opinione in merito?

 

Come da lei notato la guerra libica coincide col centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana, e non stride con quella ch’è stata la storia italiana fino ad oggi. Voglio cioè dire che il repentino voltafaccia italiano rispetto alla Libia, col Trattato d’Amicizia stracciato e l’ingresso in guerra, è in qualche modo in linea con la nostra storia nazionale.

L’Italia conquistò la sua unità con l’appoggio della Francia: nel 1870, quando i Francesi entrarono in guerra con la Prussia, anziché aiutarli come s’attendeva Parigi, l’Italia restò neutrale ed anzi approfittò della sconfitta dell’ex alleato per conquistare Roma. L’Italia strinse poi un’alleanza con Germania e Austria-Ungheria, alleanza che durò per decenni, salvo poi cambiare campo nel 1914-15 quando scoppiò la guerra in Europa. Con la Germania fu stretto poi il “Patto d’Acciaio” ma nel 1939, quando Berlino entrò in guerra, benché l’Italia fosse teoricamente tenuta ad aggregarvisi dichiarò la “non belligeranza”, e scese in campo solo quando la vittoria dell’alleato pareva certa; di lì a pochi anni però le sorti erano rovesciate, e nel 1943 l’Italia passò in un giorno dall’alleanza con la Germania alla guerra contro la Germania.

Quindi gli eventi del 2011 altro non sono che l’ennesima ripetizione del leit motiv della politica estera italiana.

 

Qual è la sua opinione sulle parole del presidente Napolitano il quale, esaltando la missione in Libia, si è mostrato orgoglioso che ancora una volta l’Italia stia al fianco degli USA?

 

Bisogna considerare il ruolo di primo piano avuto da Napolitano nel promuovere la scelta di stracciare il Trattato di Amicizia e scendere in guerra contro la Libia al fianco di USA, Francia e Gran Bretagna. Esso va inquadrato nella reazione suscitata dalla politica estera del Governo in carica in certi ambienti della diplomazia e della politica italiane. Alla politica estera di Berlusconi sono state mosse due critiche principali. La prima, di vecchia data, è quella d’affidarsi troppo al “personalismo”, privilegiare i rapporti interpersonali tra leader anziché contare su programmi strategici di lungo periodo: è un’obiezione fondata e ben motivata. Negli ultimi anni si è aggiunta una seconda critica: essersi allontanato eccessivamente dagli USA ed aver condotto una politica estera troppo libera, nei confronti della Russia ma anche nel Mediterraneo, tanto con gli accordi con la Libia quanto col rapporto speciale con Israele, in un momento in cui le relazioni tra Washington e Tel Aviv vanno raffreddandosi.

Le critiche della diplomazia professionale italiana alle mosse di Berlusconi hanno coinciso col malcontento da parte degli USA e con una recrudescenza dei problemi giudiziari e d’immagine del Capo del Governo. In questo contesto c’è stato un intervento molto deciso di Napolitano, ad assumere un ruolo in politica estera che in teoria non gli spetterebbe. Nel maggio 2010 Napolitano ha compiuto una visita a Washington, programmata in tutta fretta nelle settimane precedenti e che ha incluso lunghi colloqui privati con Obama. Si pensa che Napolitano abbia ricevuto una sorta d’investitura per farsi nuovo interlocutore privilegiato degli USA, in un momento in cui c’è difficoltà di comunicazione tra Obama e Berlusconi (soprattutto la difficoltà ad ottenere da Berlusconi riscontri concreti agl’impegni che assumeva verbalmente). Sfruttando anche la debolezza interna di Berlusconi (una maggioranza parlamentare vacillante, una popolarità in caduta libera come si è visto anche dalle ultime elezioni, pensieri ed impegni extrapolitici e giudiziari che lo tengono impegnato), Napolitano ha assunto un ruolo di primo piano nella politica estera italiana. Un ruolo più forte anche di quello del predecessore Ciampi, che pure s’era distinto per attivismo. Un ruolo che per certi versi ricorda quello assunto da Gronchi, diversi decenni fa: un altro presidente della Repubblica che aveva cercato di indirizzare la politica estera italiana anche scavalcando le prerogative del Governo. Allora però Gronchi cercava di dare un indirizzo più autonomo dagli USA, mentre Napolitano sta facendo l’esatto contrario: cerca di far rientrare la politica estera italiana nel solco della sudditanza verso gli USA.

 

La NATO proroga di altri tre mesi la sua missione in Libia. Questo significa che anche i caccia italiani continueranno a bombardare il paese?

 

Questo senz’altro.

La proroga della missione in Libia dipende dal fatto che non stanno ottenendo i risultati che avevano sperato. Dal 19 marzo i paesi atlantici hanno condotto all’incirca 10.000 missioni aeree sulla Libia, ma ciò malgrado la situazione sul terreno si è cristallizzata: sono riusciti ad impedire che le autorità libiche riprendessero il pieno controllo del paese, ma non a far rovesciare il Governo dai ribelli.

Ci si può aspettare un salto di qualità, non una semplice proroga delle missione aeree. E’ sicuro che adesso cominceranno ad essere impiegati anche elicotteri d’attacco, quindi non più solo bombardamenti da alta quota ma diretto appoggio ai movimenti delle forze di terra ribelli. Non è confermato, ma pare abbastanza probabile, che il Consiglio di Cooperazione del Golfo metterà a disposizione – posto che non l’abbia già fatto – delle forze mercenarie per sostenere i ribelli. Questi mercenari sono attualmente in addestramento negli Emirati Arabi Uniti, al comando di un ex ufficiale statunitense già fondatore di una delle più importanti agenzie di sicurezza private.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Aldo Braccio, Turchia, ponte d’Eurasia

$
0
0

Aldo Braccio

TURCHIA, PONTE D’EURASIA
Tra Mediterraneo e Asia Centrale, il ritorno di Istanbul sulla scena internazionale

Prefazione di Antonello Folco Biagini

Fuoco Edizioni, Roma 2011
pag. 96

Prezzo 12,00€

ISBN 9788897363163

Per ordini:
ordini@fuoco-edizioni.it

Il libro

Agli occhi di molti italiani e di molti europei, la Turchia rappresenta una sorta di “altro da sé” continuamente evocato in termini di preoccupazione e di confronto polemico. Per altri, l’immagine del Paese è quella di un’entità adagiata nell’indolenza passiva alla periferia del mondo occidentale.

La realtà di questi ultimi anni – in particolare dal 2002 in poi – è invece completamente diversa : recuperate le sue radici e la sua immensa tradizione culturale la Turchia sta gradatamente ma sicuramente riconquistando la sua centralità geopolitica e il suo ruolo di ponte e di cerniera fra Europa e Asia.

Ankara – non più in contrasto ma come erede legittima di Istanbul/Costantinopoli/Bisanzio – sta contribuendo a ridisegnare le vaste e strategiche regioni situate fra il bacino mediterraneo e l’Asia centrale, svincolandole da un’anacronistica dipendenza atlantica e favorendo diversi equilibri mondiali. Conoscere meglio la Turchia sarà l’occasione per conoscere meglio noi stessi e il nostro futuro.

L’Autore

Aldo Braccio è redattore di “Eurasia – rivista di studi geopolitici e membro del consiglio direttivo dell’IsAG – Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie. Esperto di questioni turche, i suoi saggi ed articoli sono apparsi su riviste specializzate, e siti internet, italiani ed esteri.  Al Master Mattei in Vicino e Medio Oriente dell’Università di Teramo – edizioni 2009 e 2010 – ha tenuto relazioni sulla questione curda.

Prefazione

Antonello Folco Biagini,
professore ordinario di Storia dell’Europa orientale
Università di Roma La Sapienza

…i segnali provenienti da Ankara, a partire soprattutto dall’inizio della guerra irachena (2003), sono molteplici e concordanti e vanno in una certa direzione, che è quella di una riacquistata autonomia di fronte alle sollecitazioni esterne.
Se gli sconvolgimenti del biennio 1989 – 1991, sfociati nella fine del sistema mondiale bipolare, avevano tutto sommato poco influito sulla collocazione internazionale della Turchia, confermandone e semmai consolidandone il ruolo strategico di avamposto delle potenze occidentali, l’inizio del nuovo secolo ha visto invece un’evoluzione e dei cambiamenti interessanti e significativi.
Il saggio di Aldo Braccio offre un compendio di tali segnali interpretandoli secondo una prospettiva culturale (riscoperta dell’ottomanesimo e del pluralismo, in luogo dell’identarismo nazionale turco) e geopolitica (relazioni con il mondo arabo, con quello russo, e  con gli altri Paesi dell’area), senza rinunciare a tracciarne i risvolti economici e di politica energetica

dalla prefazione del prof. Antonello Folco Biagini

Per maggiori informazioni, consulta il blog:
http://turchiapontedieurasia.blogspot.com/

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

I Balcani del XXI secolo

$
0
0

Fonte: http://www.enriquelacolla.com/sitio/nota.php?id=231

La liquidazione del presunto Osama Bin Laden si inserisce in un quadro di tensioni regionale molto inquietante, dove potrebbe auto compiersi alcune delle profezie annunciate dal Pentagono da alcuni anni a questa parte.

La scarsa attenzione che i mezzi argentini prestano allo scenario internazionale sta lasciando passare inavvertito un notevole aumento della temperatura politica nella regione che è costituita, oggi e probabilmente per molto tempo ancora, dall’asse geostrategico dove si leggeranno i registri della bilancia del potere mondiale nel secolo attuale. È questo, l’Asia centrale. Le potenze che aspirano a convertirsi in superpotenze e gli stati emergenti che si trovano in condizioni di raggiungerli si trovano già lì ed è lì che si proietta anche la volontà strategica dei pianificatori del Pentagono, nella loro monumentale scommessa egemonica.

Quando parliamo dell’Asia centrale ci stiamo riferendo alle nazioni che occupano il centro della scena in quella zona. È così, Cina, Pakistan, India e Russia, tutte influenzate o irritate dalla politica statunitense di inserimento nell’area. Le amministrazioni nordamericane hanno sempre voluto che la loro azione nella zona venga letta come parte di una “guerra contro il terrorismo”, ma questa è una pretesa pellegrina che risulta efficace solo tra la massa di spettatori spensierati e disinformati che costituisce il pubblico occidentale. Il resto sa a cosa attenersi. Non è la persecuzione dei terroristi di Al Qaeda né dei barbuti talebani a spingere Washington a dispiegare la sua opprimente panoplia in questa zona né ad invaderla e stabilire lì le basi di cui ha bisogno per ulteriori sviluppi, ma il valore che suppone come possibile punta di lancia contro Cina e Russia, e come ombrello che protegge gli oleodotti e le fonti di petrolio e gas in Medio Oriente, nel Mar Caspio e nell’insieme dei paesi dell’Asia centrale. La presenza nordamericana in questo luogo, giocata con effettivi molto più ridotti ma altamente tecnici e armati, supportata dall’appoggio di flotte gigantesche, è un fattore che pesa nell’adeguamento e orientamento di una nazione come l’India, possibilmente sottodelegata imperiale- per il gioco dei propri interessi che la oppongono al Pakistan e alla Cina- e nel ruolo che potrebbero avere paesi come la Turchia e l’Iran, anche con interessi competitivi. La zona è anche un calderone etnico e confessionale, dove si possono mettere alla prova i presupposti dello Scontro tra Civiltà, teorizzato da Samuel P. Huntington.

È in base a questo piano, attivo da quando l’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001 ha dato il pretesto ideale per attuare questa politica, che bisogna valutare l’insieme e ciascuno dei fenomeni che hanno luogo lì. L’assassinio di Osama Bin Laden, fatto confuso (40 minuti di scontri e caduta di un elicottero nordamericano, tutto senza perdite proprie; il cadavere di Osama gettato in mare) ha rappresentato una pietra miliare; non per il personaggio abbattuto, ma perché, per portare avanti questa impresa, il presidente Barack Obama ha superato la sovranità di un presunto alleato e ha aggravato, con questo atto, le già grandi tensioni che esistono tra Washington e Islamabad.

Nessuno sviluppo politico e strategico nel mondo moderno può essere compreso se non si prendono in considerazione i fattori storici che lo determinano. La stessa esistenza del Pakistan è dipesa dall’azione dell’imperialismo: nasce da una segmentazione dovuta all’azione dell’imperialismo britannico in India: sebbene esisteva una notevole rivalità confessionale tra indù e musulmani, è stata la sottile azione del vicereame inglese a ravvivare questa contraddizione che ha portato alla frammentazione del subcontinente in una parte islamica e una brahmanica. I contenziosi di frontiera tra entrambi i paesi li hanno portati a una brutale epurazione etnica, a tre guerre e a molti scontri armati per mezzo secolo. Il Pakistan si è appoggiato agli Stati Uniti per affrontare un’India molto superiore per risorse umane e ricchezza, e quest’ultima si è appoggiata all’Unione Sovietica. L’entrata posteriore sovietica in Afghanistan ha rafforzato questo schema: il Pakistan è diventato un alleato prezioso per supportare l’insorgenza dei “lottatori per la libertà”, come li chiamava Ronald Reagan, impegnati a sconfiggere il governo imposto dal loro nemico mondiale. La crescita pakistana e il suo arrivo alle armi nucleari lo hanno trasformato tuttavia in un alleato poco sicuro, percorso da una sorda resistenza all’uso puramente strumentale che facevano i nordamericani del fondamentalismo islamico, resistenza che potenzia la pericolosità dell’anarchia propria di un paese lacerato tra politici e militari, con forti tensioni intrinseche e con un potenziale bellico da temere.

Ciò ha fatto sì che, per Washington, il Pakistan sia diventato uno stato fallito e forse presto inaccessibile. Le comunità militari e dei servizi segreti statunitensi sembrano aver ricevuto l’ordine di fare in modo che questo processo di liquefazione si acceleri e esse stesse siano capaci, per una decisione propria dettata dalla loro “deformazione professionale”, di fomentare ancora di più la disarticolazione di questo paese. Il desiderio di frammentarlo e neutralizzare il suo armamento nucleare è diventata un impulso a cui è difficile resistere per Washington, tenendo anche presente che, con il crescente sviluppo di vincoli militari tra Pechino e Islamabad, l’equazione diventa anche più antipatica. Tutto questo contribuisce a rendere il Pakistan un obiettivo probabile: un’approssimazione con il nemico-in termini oggettivi- numero uno per gli Stati Uniti, rende il Pakistan un ostacolo per il raggiungimento della supremazia globale alla quale aspira l’Unione.

L’incursione per eliminare Bin Laden deve essere vista in questo contesto: la leggerezza con cui è stato violato lo spazio aereo di un paese “alleato”, l’ignoranza in cui si è tenuto il governo pakistano riguardo l’operazione, gli ordini specifici di superare ogni opposizione possibile, compresa quella delle truppe provenienti dalla base dell’esercito del Pakistan che confinava con il bunker di Osama, sono espressione di una volontà di provocazione.

 

Reazioni

La reazione pakistana no ha avuto molta risonanza in occidente, ma c’è stata ed è stata seria. La più evidente è stata la visita del primo ministro pakistano in Cina, a poco più di due settimane dall’attacco nordamericano. Yussuf el Gilani ha ricevuto il trasferimento immediato e senza carico di 50 moderni caccia per la sua forza aerea e un appoggio diplomatico convincente: il ministro per gli Affari Esteri cinese ha affermato che è volontà del suo paese “che la sovranità e l’integrità del territorio pakistano vengano rispettate”. A questo si sarebbe aggiunto, secondo l’India Times, un avvertimento trasmesso a Washington ufficiosamente, nel quale Pechino dichiarerebbe che qualsiasi attacco contro il Pakistan sarebbe considerato un attacco contro la Cina.

Questi sono dati molto significativi, sebbene i grandi mezzi di comunicazione non lascino loro spazio. E non ci sono indizi chiari sul fatto che gli Stati Uniti rettificheranno la loro azione né in Pakistan né in Asia centrale. Al contrario, tutte le procedure in corso sono mirate a prepararsi a una contingenza grave, che il Consiglio Nazionale dei Servizi Segreti ha descritto in una relazione elaborata insieme alla CIA nel novembre 2008: “Entro il 2015 Pakistan può diventare uno “stato fallito”, squartato dalla guerra civile, spargimenti di sangue, rivalità interprovinciali, lo sforzo per il controllo degli arsenali nucleari e una totale “talebanizzazione”. Questa prospettiva è stata rielaborata dal Pentagono nel gennaio 2009, dicendo che esiste la possibilità di una probabile guerra civile e settaria che scoppi “veloce e nell’immediato”, mettendo in gioco lo status delle armi nucleari, e che questa “tormenta perfetta” richiederebbe il compromesso delle truppe degli Stati Uniti e della coalizione “in condizioni di immensa complessità e pericolo”. (1)

Accentuando le procedure attraverso lo stile di liquidazione di Bin Laden e della politica di assassini puntuali, con aereomobili a pilotaggio remoto (droni) o con comandi come i Navy Seals, di personaggi legati ad Al Qaeda, questo tipo di profezia correrebbe un gran rischio di auto compiersi, soprattutto se i danni collaterali che suscitano sempre questo tipo di azioni si moltiplicano. Una divisione del Pakistan lungo linee di differenziazione tribale starebbe dietro l’angolo e così questa nazione si vedrebbe privata del ruolo che la sua situazione geopolitica le aveva dato finora: quello di funzionare come garante del corridoio energetico tra Iran e Cina. Dal momento che un processo così naturale aprirebbe le porte ad una grande minaccia contro la Cina, è evidente che questa- nonostante finora abbia preferito gestire la sua rivalità con gli Stati Uniti dandogli poca importanza- si sente obbligata a fare un passo avanti.

 

Fantasmi del passato

Questo è il rischio a cui va incontro il mondo e che dovrebbe farci ricordare i prolegomeni della catastrofe del 1914. Il meccanismo che ha scatenato lo scoppio ad agosto di quell’anno era latente nella politica di alleanze e nella deliquiescenza di vari imperi decadenti, che li spingeva (a due di loro almeno) a scommettere molto e a portare avanti le loro sfide poiché credevano di trovare nella fuga in avanti una soluzione, anche se provvisoria, ai loro problemi. Gli imperi erano quello austro-ungarico, quello russo e quello turco. Quest’ultimo era rimasto quasi scomposto nelle guerre balcaniche, che lo hanno sloggiato dalle sue ultime posizioni in Europa (tranne Istanbul). La sua sconfitta aveva aperto un vuoto di potere nei Balcani. Vari stati piccoli desideravano occupare quel luogo a danno dell’Austria-Ungheria, che si sentiva obbligata a sostenere la sfida poiché altrimenti la sua traballante unità plurinazionale-già molto strattonata da cechi, rumeni, serbi e slavi- sarebbe andata a pezzi. La Russia, da parte sua, era interessata a recuperare il prestigio perso nella guerra russo-giapponese di una decade prima e decisa ad approfittare del quasi collasso dell’impero turco e delle difficoltà di quello austro-ungarico, per aprirsi un varco verso l’Europa centrale e affacciarsi al Mar di Marmara e ai Dardanelli, ottenendo così quell’accesso al Mediterraneo che la sua politica estera perseguiva da circa 200 anni.

Dal momento che questi imperi in decadenza erano vincolati da potenze anche più grandi- Germania, Gran Bretagna, Francia- da alleanze e riassicurazioni militari, quando il 28 giugno del 1914 hanno risuonato a Sarajevo gli spari che hanno fatto fuori l’erede al trono austro-ungarico e sua moglie, tutto era pronto perché le cose pattinassero sul terreno scivoloso dei fatti compiuti. L’Austria-Ungheria attaccò la Serbia, la Russia attaccò l’Austria, la Germania come alleata dell’Austria attaccò la Russia, la Francia assolse ai propri obblighi con quest’ultima e dichiarò guerra alla Germania e, quando questa invase il Belgio per attaccare i francesi lateralmente, la Gran Bretagna entrò in guerra contro la Germania. Le linee maestre di questo pasticcio si possono ripetere ora, in un contesto infinitamente più pericoloso (dal momento che ci sono armi nucleari di mezzo e quando una cosa così inizia, nessuno sa come né dove finisce) e con una scommessa statunitense anche più superba di quella che aveva il governo tedesco nel 1914, quando si credeva accerchiato ed entrò in guerra per rompere il circolo.

Perché, in effetti, se le cose si estremizzano, la Russia non potrà lasciare da parte la Cina, visto che gli Stati Uniti e l’Unione Europea sembrano decisi a renderle la vita impossibile nell’Europa dell’Est e nel Caucaso. Inoltre bisogna dire che una simile prospettiva dovrebbe spaventare chiunque. Non sappiamo se questo è il caso degli strateghi del Pentagono. Anche se ci fosse un conflitto localizzato e sviluppato in grande misura tramite l’India, mettersi contro un paese popolato da 180 milioni di musulmani non è un affare semplice. Non sappiamo bene perché Barack Obama è Premio Nobel della Pace. Vuole esserlo anche della guerra?

 

Nota

1) Andrew Gavin Marshall, Imperial Eye on Pakistan, Global Research del 28 maggio

 

Traduzione di Daniela Mannino

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Dall’Universitas alla Noosfera

$
0
0

Dall’Universitas alla Noosfera

Come educare alla salvezza del Pianeta

(Chi è responsabile di ciò che sta accadendo al nostro Pianeta?

Riflessioni sulla Missione dell’Università nel 21esimo Secolo)

 

Dott. Alexander Kovriga

(Università Nazionale “V. Karazin”, Ucraina)

Conferenza Pubblica Internazionale presso

Università di Rhode Island, 27 Aprile 2011

Buon pomeriggio a tutti!

Sono molto onorato di essere qui e apprezzo tutti gli sforzi fatti per rendere possibile questo evento.

Voglio ringraziare in particolar modo il Rettorato, il Decano di Arti e Scienze, l’URI Honors Program e il dipartimento di Scienze Politiche per la cortese assistenza nella preparazione di questo incontro presso il vostro bel campus.

Capisco che le previsioni e speculazioni sul futuro costituiscano attività intellettualmente deprecabili. E che nel cercare di parlare del futuro dell’università, nel Paese che ne ospita tante (buone e all’avanguardia) quante il resto del mondo messo assieme, il rischio per me è molto alto.

Ma mi preoccupa che, in un mondo sempre più complesso ed interconnesso, coloro che possono alleviare le nostre paure su ciò che ci riserva il futuro, siano come l’orbo nel regno dei ciechi. Non vedranno molto bene, ma sapranno vedere come fare profitto.    

Direi che questi costituiscono, di fatto, tentativi di privatizzazione del futuro, di sfruttamento per tornaconto personale. Qualcuno potrebbe chiamarlo “saccheggio del futuro”. Nelle scienze sociali la manipolazione della nostra percezione del futuro serve finanche come strategia – un tentativo di prevedere ed assicurare la vittoria di specifiche visioni del mondo.

Spero di convincervi oggi che uno scopo basilare dell’università dovrebbe essere quello di contrastare simili tentativi di privatizzazione del futuro.

Apprezzo molto il motto della vostra università: Pensa in Grande – Noi lo Facciamo.

Nello spirito di questo motto vi dico che, soprattutto oggi che ogni problema regionale ha implicazioni globali,  il pensiero aperto e critico sulla natura e lo scopo dell’università è assolutamente essenziale.

 

L’Università, come istituzione cardine della civiltà, è sopravvissuta per molto secoli. Ma adesso l’intera struttura dell’educazione superiore, le modalità di trasferimento della cultura, i nostri schemi di pensiero, riflessione e creatività stanno mutando rapidamente.

E’ nostra responsabilità parlare ed agire in difesa del ruolo dell’Università nella società, e riorientarla per fronteggiare le sfide attuali e contribuire alla salvezza e allo sviluppo dell’intero genere umano.

Perché questo tema è così importante adesso? Perché il mondo intero è in una fase di transizione e il Futuro del Pianeta dipende dall’azione delle comunità universitarie e dal loro sviluppo.

Le università sono sempre state incubatrici naturali del futuro, centri per la creazione di nuove conoscenze e abilità, e per la disseminazione di nuove visioni del mondo.

Le catastrofi causate dall’uomo agli inizi del 21esimo secolo ci mostrano che i vecchi paradigmi sull’andamento del globo non sono solo irrimediabilmente superati, ma possono condurci ad una catastrofe(1).

Perché il genere umano si ritrova continuamente coinvolto in situazioni inaspettate con l’affacciarsi continuo di nuove minacce nucleari, demografiche, finanziarie, politiche, legate allo sviluppo, etc.?

A seguito di ogni nuova crisi, vengono fatti enormi sforzi per neutralizzare simili minacce, ma ciò non garantisce che le successive verranno affrontate con successo. Chernobyl; uragano Katrina; crisi finanziaria globale; fuoriuscita di petrolio nel Golfo; Fukushima: perché tutto procede in questo modo?

Perché il Genere Umano non è libero come dovrebbe nel definire il proprio percorso di sviluppo.

Molti degli strumenti tradizionali che incoraggiavano l’autoriflessione ed una ponderata ricerca per uno sviluppo futuro sensato sono stati distrutti, o sono semplicemente “passati di moda”.

Abbiamo limitato la nostra stessa libertà di scelta permettendo a noi stessi di diventare schiavi di stereotipi e di ingenue ideologie, la più grande delle quali è la supremazia del mercato.

Come risultato, la comunità globale è ovunque incapace di comprendere il suo potenziale. Non si assume la responsabilità delle proprie azioni.

Non ammette la propria responsabilità sull’ambiente.

Ir-responsabilità e assenza di obiettività hanno infettato a tutti i livelli le istituzioni, gli stati, le imprese e, ovviamente, i media, e questa è diventata la ragione principale per la quale restiamo sempre indietro nel rispondere a nuove minacce causate dall’uomo che, scientificamente parlando, sono interamente prevedibili.

Sappiamo, è un’inevitabilità statistica, che le centrali nucleari sono soggette a incidenti, ma nessuno di fatto ne risulta responsabile quando ciò accade. Sappiamo che le epidemie devasteranno il pianeta, ma non è predisposto alcun meccanismo di prevenzione al riguardo. Sappiamo che i mercati crollano periodicamente, ma quando collassano tutti paiono sorpresi e nessuno sa cosa fare.

Ovviamente, ognuno è chiamato in causa per la sopravvivenza del pianeta, e tuttavia non esiste ancora un corso di laurea chiamato “Assunzione di rischio e responsabilità per la sopravvivenza del Pianeta”.

Lo sviluppo di una simile disciplina nelle nostre università necessita apparentemente di una rappresentazione molto più complessa dei cicli di lungo termine delle società [e civiltà] rispetto a quelle che siamo al momento capaci di produrre.

Il Genere Umano può ora restare intrappolato in forze così complesse e potenti da superare le proprie capacità di controllo sulle stesse.  Restando prive di controllo, queste ci minacciano con l’estinzione. La teoria della selezione naturale, che è stata così influente nel formare la nostra visione del mondo in settori che spaziano dall’economia alle relazioni internazionali, è divenuta essa stessa fonte di pericolo per la specie.

Nel mondo mediatico attuale è certamente facile limitarsi a disseminare informazioni, ma  cambiamenti basilari nelle visioni del mondo, la creazione di nuove categorie del sapere, la riproduzione e la preparazione delle nuove generazioni nel mettere a frutto tale conoscenza, dipendono ancora dall’Università.

Così si pongono davvero le basi per la sopravvivenza del Genere Umano.

 

Ho trovato un unico aspetto positivo in questa crisi.

La prima volta è stata quando il paese nel quale vivevo – l’URSS – si è dissolto, e molti nuovi paesi – Ucraina inclusa – sorsero al suo posto. Come effetto immediato di questi eventi, ho avuto la possibilità di viaggiare per l’Europa e gli Stati Uniti e partecipare ad un certo numero di programmi di alto livello di pianificazione strategica e di management. Infine, lavorando come consigliere per l’istruzione con il precedente presidente d’Ucraina, mi venne affidato il compito di tentare di elaborare un nuovo sistema nazionale di istruzione.

Sono sempre stato uno studente brillante, fino a che non ho cominciato a pormi delle domande. Ho studiato architettura e pianificazione urbana, credendo ingenuamente che gli architetti avessero le capacità sufficienti a creare nuove città e, con esse, una migliore qualità della vita.

Insoddisfatto, al termine di quattro anni di studio, mi recai a Mosca per un incontro con i più grandi professionisti della pianificazione urbana. Qui, presso l’Istituto Centrale di Scienza e Design per Pianificazione Urbana, ho collaborato alla progettazione di una nuova Tractor City per 500.000 persone. Questo esercizio futile mi ha insegnato che è impossibile prevedere con la minima certezza scientifica tutte le ramificazioni delle grandi scelte strategiche e di investimento che ci veniva chiesto di effettuare. Ciò mi ha portato a ripensare totalmente il mio approccio e a considerare se come specie possiamo davvero essere capaci di affrontare il nostro futuro affidandoci esclusivamente alla conoscenza quantitativa e all’esperienza tecnica.

Agli inizi degli anni ’80, presi parte ad un gruppo radicale di intellettuali alla ricerca di nuovi modelli di politica sociale. Per tutto il decennio abbiamo tenuto più di 100 incontri di durata settimanale affrontando complesse problematiche nei maggiori centri intellettuali del Paese.

La perestroika doveva giungere dopo diversi anni, ma le nostre ambizioni erano già molto più grandi. Ci siamo posti come obiettivo la preparazione di un nuovo tipo di specialista – qualcuno in grado di portare nuove tecnologie e progressi socio-economici.

27 anni fa ciò era chiamato, in gergo burocratico, “Programma per l’Intensificazione di Attività Innovative e l’Accelerazione del Progresso Scientifico e Tecnico” (2).

Oggi, in America, credo venga chiamato “conquistare il futuro” [шутка].

Allora, il Ministro dell’Istruzione dell’URSS scelse 4 università – Mosca, Minsk, Riga e Kharkov –  per preparare specialisti nella sfida verso la trasformazione del Paese. Dopo aver completato il mio dottorato nel 1985, fui mandato a Kharkov per dirigere il progetto.

Avevamo carta bianca per costruire un sistema (non sovietico) di formazione manageriale partendo dal nulla. Abbiamo eliminato le discipline tradizionali e pensato invece esclusivamente tramite case-studies e simulazioni di crisi reali. La tesi di laurea prevedeva proposte di risoluzione per simili crisi.

Sebbene ricevessimo ottimi riscontri dal Ministero dell’Istruzione, non appena le riforme neo-liberali si affermarono nel mio Paese, tutti i fondi per progetti sperimentali cessarono e la maggior parte dei nostri laureati emigrò da Mosca verso l’Occidente.

Questa esperienza mi ha insegnato che, affinché le innovazioni nel campo dell’istruzione abbiano successo, devono includere una sfera di  applicazione pratica. E, per riuscire in  simile sperimentazione, è necessario ricevere incoraggiamento e supporto di lungo termine.

Successivamente sono stato nominato responsabile del Dipartimento di Scienze e Istruzione per il Presidente d’Ucraina, appena dopo la “Rivoluzione Arancione” del 2004.

Avevo proposto iniziative tese a rafforzare il ruolo della cultura e delle discipline umanistiche ad ogni livello curriculare, per creare ciò che ho chiamato “Una Nazione di Apprendimento”. Ho incontrato un discreto successo, ma questo venne frustrato dal fatto che ogni iniziativa veniva adesso valutata anzitutto con il criterio del profitto.

Costruire una politica di istruzione sovrana, autenticamente nazionale, è oggi pressoché impossibile per un paese povero. Durante il mio incarico presso la Presidenza, gli attori principali del sistema di istruzione ucraino erano la Banca Mondiale e l’Open Society Institute di George Soros. Ciascuno aveva la propria agenda e l’identità ucraina, nonché il ruolo che l’università poteva giocare nella costruzione della stessa, non erano ivi contemplati.

Ho avuto una bella lezione sull’interdipendenza dei mercati globali durante i miei tre anni nell’amministrazione presidenziale.

Ma senza una visione di strategie di lungo termine e di obiettivi specifici per l’Ucraina, qual è il senso della politica nazionale? Qual è il senso dello stesso esistere di una nazione?

 

Ed arriviamo così allo scopo dell’Università.

A seguito del collasso economico globale, si è diffuso il luogo comune per il quale staremmo vivendo una profonda crisi. A mio parere, in verità, l’ultima crisi finanziaria è nient’altro che conseguenza di una crisi della civiltà occidentale che sta andando avanti da lungo tempo.

Tale crisi di lungo termine richiede una nuova concezione dell’università e della formazione universitaria che ci conduca oltre i limiti del progetto illuminista di modernità, il quale ha promosso un unico modello di sviluppo umano, e che ha avuto luogo nella propaggine nord-occidentale dell’Eurasia, a scapito di ogni altra storia ed esperienza umana.

Il superamento della crisi interna alla civiltà occidentale è dunque inestricabilmente legato al trascendimento della “fine della storia” (cit.) e dello “scontro di civiltà” (cit.), sostituendo quest’ultimo con una meno netta  concezione della storia e della civiltà globale ed anche del nostro ruolo, più modesto, nelle stesse. Ciò richiederà una modalità qualitativamente nuova di apprendimento, che ambisca a preservare, più che alterare, i valori fondamentali delle civiltà diverse dalla nostra.

Il mio stesso punto di partenza è nell’opera del grande accademico russo-ucraino Vladimir Vernadsky, il quale è noto in Occidente soprattutto per aver introdotto il termine “biosfera”. Secondo Vernadsky, la consapevolezza umana dell’interconnessione della geosfera, e quindi della biosfera, potrebbero finalmente condurre il genere umano ad una consapevolezza dell’interconnessione dell’intero patrimonio cognitivo umano, al quale lui si riferiva con il termine noosfera.

Se pensiamo allo sviluppo del nostro pianeta come a quello di un singolo organismo, come Vernadsky ci incoraggia a fare, le Università assumono non solo la funzione di cervello, ma anche di sistema circolatorio per l’organismo. Esse sviluppano il sapere fondamentale che deve essere distribuito attraverso specifiche organizzazioni sociali e commerciali.

 

Nel mondo attuale le Università sono le sole organizzazioni a godere di sufficiente autonomia dalle istituzioni politiche ed economiche dominanti e ciò permette loro di considerare nuovi modelli di organizzazione industriale e socio-culturale, nuovi sistemi di produzione e tipologie istituzionali, e nuove modalità di impiego nella prospettiva dell’interesse di lungo termine della razza umana, più che non di quello del bilancio trimestrale o della prossima tornata elettorale.

Vernadsky ha anticipato che la Noosfera potrebbe infine emergere come una forza creatrice capace di agire su scala planetaria. Al riguardo potete seguirne lo sviluppo sul sito web del “Progetto di Coscienza Globale” curato dal professore Roger Nelson da Princeton. [http://noosphere.princeton.edu/]

Implicitamente, tuttavia, si è dibattuto a lungo, in una scuola di filosofia russa conosciuta come cosmismo, che se il genere umano è forza creatrice dell’universo, allora ciò avrà sicuramente implicazioni anche al di là del nostro pianeta.

Essi ritengono che, affinché la specie umana sopravviva, deve estendere le sue forze creatrici per tutto il sistema solare e oltre, ottenendo così l’equivalente funzionale dell’immortalità (3).

O, come diceva in maniera più poetica il filosofo russo Evald Ilienkov: “Lo scopo dell’Umanità è accendere un altro Sole nell’Universo”.

Per impedire la morte del pianeta terra, l’umanità deve abbracciare il suo potenziale di attore cosmico ed aspirare a tutti i nuovi tipi di sapere che ciò richiederà.

Tuttavia, la sfida più immediata è formulare sapere in modalità che ci permettano di comprendere l’interdipendenza del nostro pianeta concepito come un tutt’uno, ed il co-sviluppo di tutte le specie che ci vivono. Questa è la fondamentale precondizione per l’affermarsi della noosfera.

Come sarebbe una simile educazione all’Umanità Cosmica?

Anzitutto, dovrebbe essere in grado di tramandare alle future generazioni il corpus di idee, conoscenze e rappresentazioni che fungono da base per il nostro benessere materiale e spirituale.

Dopodiché, dev’essere designato all’espansione della capacità umana di auto-trasformazione – individuale, sociale, istituzionale e tecnologica. Una formazione crea “capitale umano” solo se supera i modelli esistenti di attività e produzione, senza limitarsi a riprodurre “ciò che funziona”.

Inoltre, essendo una delle grandi istituzioni permanenti dell’umanità, l’università non deve mai dimenticare che la sua vera vocazione è focalizzarsi sulle questioni ultime dell’esistenza umana, non riducendosi a centri d’addestramento per competenze effimere.

Ciò richiederà alcune rivalutazioni e reintegrazioni del patrimonio umano in un contesto globale di educazione, e uno sforzo concertato per rompere le barriere disciplinari e le strutture dipartimentali che bloccano le nostre capacità dal formulare le grandi idee che il Genere Umano necessita.

Una idea di questo tipo che recentemente è emersa nel regno delle relazioni internazionali è il Dialogo delle Civiltà.

Politicamente, dal Trattato di Westfalia, le nazioni sono esistite come contenitori separati, nonostante i loro contenuti culturali, linguistici, religiosi e di altro tipo spesso fuoriuscissero. E’ chiaro adesso che nel mondo attuale dovremmo concentrarci più sulle fuoriuscite che sui contenitori.

Ciò richiederà nuove forme di comprensione culturale e di apprendimento. Come risultato, il progetto di dialogo delle civiltà è stato formulato dal filosofo austriaco Hans Koechler e successivamente promosso da molto leader mondiali e adottato alla 59esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005.

Dalla prospettiva dello sviluppo della noosfera, il dialogo fra civiltà conduce ad una possibilità di unificazione delle diverse comunità nel perseguimento di comuni obiettivi globali.

 

Infine, un’altra importante componente dello sviluppo della Noosfera è il ripensamento della funzione dei mercati nell’istruzione.

L’inizio del 21esimo secolo è caratterizzato da crescenti tentativi di privatizzazione di beni tradizionalmente pubblici, come l’istruzione. E’ ormai un luogo comune il considerare l’istruzione semplicemente un bene di mercato come altri.

In quest’ottica, gli accademici commerciano la loro eredità illuminista, promuovendosi come guardiani e creatori di sapere prodotto per il bene superiore dell’umanità. Essi promuovono il libero scambio di idee in una società democratica e dichiarano di lavorare per proteggere la libertà di pensiero, inclusa quella di dissentire dall’ortodossia prevalente. Ma, da una prospettiva neo-liberale, è difficile vedere una diretta correlazione fra i benefici dell’istruzione e quelli del mercato perché quattro anni di università formano un individuo con un sapere molto maggiore di quello richiesto per un lavoro. In termini di mercato ciò è stato criticato in quanto “spreco”, ma non lo è affatto – è potenziale inutilizzato.

Noi dovremo trasformare questo potenziale inutilizzato in qualcosa di più socialmente dinamico. Il sapere così acquisito, ma non utilizzato nel luogo di lavoro, deve ottenere uno sbocco creativo, così da diventare risorsa di nuove brecce scientifiche e culturali.

Attualmente, quando gli studenti lasciano l’università per ingrossare le fila dei lavoratori, tendono a considerare questo primo periodo come separato dal resto della loro vita. Invece di lasciare che la loro creatività produttiva venga dissipata nella vita adulta, dobbiamo trovare uno sbocco per la sua collocazione più naturale e recettiva, dove lo sprazzo della loro curiosità intellettuale era inizialmente  acceso, nella madre delle loro anime: la loro alma mater.

Paradossalmente, mentre i mercati riducono l’offerta universitaria a quei soli corsi di studio che “fanno profitto” (cit.) e solo le competenze lì conferite sono “pratiche” (cit.), essi finiscono per ridurre la complessità intellettuale e impediscono all’Università di servire come luogo di sviluppo per soluzioni creative a problemi sociali.

 

In conclusione, la crisi globale attuale richiede un approccio radicalmente nuovo al sapere e una concezione radicalmente diversa dell’Università.

Per salvare l’unicità e la complessità della natura, abbiamo bisogno di saperne di più del Mondo nella sua totalità – decisamente agli antipodi rispetto all’approccio attuale su contenitori intellettuali altamente specializzati e segregati. Come accademico, Yulii Khariton, (4) uno dei fondatori del programma di energia atomica sovietico, dichiara: “Dovremmo conoscere dieci volte di più e solo dopo agire”.

Forse il rappresentarsi un simile compito come una missione di soccorso globale, una nuova e pratica Scienza di Preservazione Umana potrebbe infine rimpiazzare la superata e finanche autodistruttiva Scienza Prometeica dell’Illuminismo.

Una simile Scienza di Preservazione Umana potrebbe formulare la visione di una tensione umana non centrata sulle singole funzioni – economica, artistica, intellettuale  – ma che abbia invece al centro l’armonia e l’equilibrio fra le componenti dell’esistenza umana. Dovrebbe servire come base per un “dialogo” attivo delle scienze naturali, umane e sociali, fornendo nuove visioni del mondo per la creazione della Noosfera.

Nell’antica Grecia, la parola “crisi” si riferisce alla rottura di legami.

Non è qualcosa da temere ma piuttosto da prevedere. Non tutte le generazioni ricevono simile opportunità. La scarsa lungimiranza è stato un male comune del genere umano in tutte le epoche ma, a causa della tecnologia e della globalizzazione, essa non è mai stata così pericolosa. Credo che l’Università dovrebbe abbracciare la sua vocazione storica e diventare ancora una volta il punto focale per la costruzione di una nuova ontologia, che superi le barriere disciplinari: superare le costrizioni intellettuali del paradigma neo-liberale e l’egocentrismo tipico del razionalismo post-illuminista.

Forse, come incubatrice di una Nuova Antropologia Salvifica Globale essa ci insegnerà come controllare gli strumenti sviluppati dalla scienza per il bene comune. Lo sviluppo sociale comune è in continua espansione e l’intero Universo è lo spazio per la sua implementazione.

Molte grazie per la vostra attenzione.

 

1)        Come sappiamo grazie agli studi dell’autorevole professore canadese di pianificazione urbana William Rees (Università della British Columbia), per mantenere il livello di consumi dell’uomo medio occidentale sono richiesti dai quattro ai sei ettari di terra produttiva. E nel mondo le terre fertili possono soddisfare solo da 1,4 a 1,7 miliardi di persone. Ciò significa che qualcuno sta pagando per questo livello di consumi – altre nazioni o le prossime generazioni.

2)        Oggi parliamo di nuove frontiere per gli sviluppi industriali e tecnologici, vertenti sul sapere economico, su tecnologie innovative ed efficienti. Tutte queste tematiche sono state già discusse e certi pratici obiettivi formulati. Cosa è successo a loro e in quale grado costituivano fantasmi ed utopie troppo lontane dalla realtà – è la domanda cruciale.

3)        L’esistenza della vita sulla terra è vista come anti-entropica, come progresso della cultura umana verso maggiore ordine e complessità. Alcuni hanno persino teorizzato che il fine ultimo del Genere Umano in questo universo sia quello di invertire l’entropia, una nozione resa celebre nell’opera di Isaac Asimov “The Last Question” e in quella di Arthur C. Clarke “The 9 Billion Names of God”, entrambe considerate fra le dieci migliori opere di fantascienza di tutti i tempi.

4)        Inventore della bomba termo-nucleare.

 

Traduzione di Giacomo Guarini

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’arresto del generale Mladić – Intervista a Yves Bataille

$
0
0

Fonte: http://www.geostrategie.com/3482/arrestation-du-general-mladic-%E2%80%93-entretien-avec-yves-bataille/

 

 

Geostrategie.com – Il generale Ratko Mladić è stato arrestato nei pressi di Belgrado. Cosa cambierà ora per la Serbia?

Yves Bataille – I Sanhedrin di La Haye avranno un nuovo ospite, ovviamente serbo. Il rituale dell’arresto e della liberazione degli esponenti della resistenza serba è arrivato a una conclusione. Il vecchio capo di stato maggiore dell’Armata della Repubblica Srpska, il generale Ratko Mladić, è l’ultima grande figura ricercata dalla “giustizia internazionale”. Il governo attuale della Serbia, che è stato rimproverato di non aver fatto abbastanza per fermare il generale Mladić, riceverà un buon incentivo dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti ma sarà ancora più esecrato dai Serbi. Ciò rafforzerà il punto di vista di quelli che considerano il governo di Boris Tadić un governo di traditori.

G – Sono stati lanciati degli appelli a scendere in strada. Ci saranno delle manifestazioni?

YB – Nel momento in cui vi parlo sono già incominciate. Bisognerà fare attenzione ai prossimi quindici giorni, perché questi avvenimenti, congiunti ad altri, potranno far scendere in strada un cordone di protesta senza precedenti.

La dichiarazione dell’”indipendenza” del Kosovo ha provocato delle manifestazioni di massa nelle strade. Ci ricordiamo che è stato dato fuoco all’ambasciata americana e ai McDonald’s. Quando l’UE ha voluto imporre il suo “Gay Pride”, migliaia di giovani serbi sono scesi in strada e hanno affrontato con determinazione la polizia ed i gendarmi. Oggi quattro elementi si congiungono per stimolare nuove manifestazioni: quello dell’anniversario dei 78 giorni di bombardamenti NATO contro la Repubblica Federale di Yugoslavia (RFY) del 1999, quello dei bombardamenti della NATO contro la Libia, l’annuncio di una riunione generale (nuovamente a Lisbona) della NATO a Belgrado il 13, 14 e 15 giugno, e infine l’arresto del generale Mladić. Tutti quanti fattori politici e emozionali in grado di alimentare una contestazione politica radicale. In seguito ai bombardamenti e all’annuncio della riunione della NATO, la Serbia era già seduta su una polveriera. L’incarcerazione del generale Mladić è un fattore che aggrava il rischio. Il governo lo sa, e perciò ha rafforzato le misure di sicurezza davanti al Parlamento, alla radio, alla televisione e alle ambasciate occidentali.

G – Lei è molto impegnato nell’azione di sostegno alla Serbia. Che cosa intende per “cordone di protesta senza precedenti” e “assisteremo a nuovi sconvolgimenti”?

YB – La piazza pubblica e la strada sono oggigiorno il terreno privilegiato di un’azione, ma di un’azione marcata dalla novità dell’utilizzo di risorse sociali come Internet, Facebook e Twitter, armi del nemico che si sono rivoltate contro di lui. Il gruppo di Facebook “Support for Muammar Gaddafi from the people of Serbia”, che ha superato i 70.000 iscritti, ha già fatto scendere in strada migliaia di manifestanti. Si sta creando una coscienza. I più lucidi dicono che non è più opportuno negoziare l’avversione, ma la si deve inquadrare. Le manifestazioni che non ne hanno prodotte altre sono prive d’interesse. Conviene infierire colpi al regime e per questo è necessario rispondere a una coordinazione, l’unità alla base e all’interno dell’azione contro il regime e contro il Sistema. La situazione sembra matura per applicare la famosa dinamica azione-repressione-nuova azione. La repressione promessa da un governo che ha affermato di non sopportare i disordini provocati porterà a nuove manifestazioni. Alcuni dicono che non ci si deve comportare come dopo l’attacco dell’ambasciata americana, cioè fermarsi. Al contrario questa volta si dovrà andare avanti e ancora avanti, fino allo scontro finale, fino alla rottura. Slobodan Homen, il commissario politico dell’ambasciata americana al governo ha capito che si moltiplicano le minacce contro i nazionalisti. Homen è un vecchio membro di OTPOR, il gruppo studentesco di opposizione a Slobodan Milosević creato dalla CIA.

Le prime manifestazioni hanno avuto luogo dopo l’annuncio dell’arresto del generale Mladić. A Belgrado la polizia ha disperso dei gruppi che convergevano verso Piazza della Repubblica, luogo abituale delle proteste. A Novi Sad si sono creati degli scontri tra un migliaio di manifestanti guidati dai nazionalisti di Obraz e dal 1389 e la polizia.

G – Come si può associare il sostegno alla Libia con quello al generale Mladić?

YB – Ci si può stupire per la mobilitazione serba per la Libia, ma vi è una spiegazione. I Serbi non hanno dimenticato l’aggressione al loro paese. È per questo che si mostrano solidali a una Libia attaccata dagli stessi nemici e con i medesimi procedimenti. Come ha detto uno psicologo, dal 19 marzo i Serbi si sono identificati con gli aggrediti. C’è anche un altro fattore che si conosce meno a Parigi, e cioè gli antichi legami tra i due paesi. La Serbia mantiene l’eredità di una relazione instauratasi pochi anni fa nel quadro del Movimento dei Paesi non-allineati (MNA). Nel 1999 la Libia di Gheddafi ha sostenuto i Serbi e in seguito si è rifiutata di riconoscere l’”indipendenza” del Kosovo.

Sulla Libia, sulla NATO, sull’Europa di Bruxelles, tutti gli autentici movimenti nazionalisti e socialisti sono sulla stessa lunghezza d’onda. Questa univoca opposizione ha portato alla convergenza di forze che, in altri paesi, sono concorrenti o antagoniste. È una specificità serba. Lì un socialista internazionale sarà sempre più vicino a un nazionalista che a un liberale atlantista. La scissione non è tra una destra e una sinistra ma tra i difensori del popolo e della nazione e i collaboratori dell’Occidente (Stati Uniti, Unione Europea, NATO etc.). Inoltre il campo della politica è stato incredibilmente scosso. Si allontana dal Parlamento giorno dopo giorno, il che non impedisce ad alcuni gruppi nazionalisti di raccogliere firme per entrarvici. Sono nati dei sindacati rivendicativi, il numero di associazioni culturali e studentesche aumenta come quello di gruppi patriotici, che formano il sottobosco di un movimento più vasto.

Il Movimento extra-parlamentare si pone come portavoce del popolo e della nazione contro il regime collaborazionista di Boris Tadić. I membri del governo sono visti come traditori imposti dal nemico e che agiscono contro il paese. Alle elezioni del 2008 i socialisti dell’SPS hanno salvato Tadić sostenendo il governo, ed è stata organizzata una scissione all’interno del Partito radicale serbo (SRS) per indebolirlo. Quest’ultimo si è infine rinforzato con la scomparsa di scena degli elementi che stavano alla base di tale scissione (Nikolićt, Vucić) e degli ex scissionisti e non dei minoritari, come il generale Božidar Delić, i quali hanno poi rinforzato i ranghi dell’SRS.

Il generale Mladić è presentato in Occidente come un “criminale di guerra”, colui che ha assassinato 8.000 musulmani bosniaci a Srebrenica. Ci fanno credere che sotto la sua direzione i Serbi si sono abbandonati ad un massacro. Oggi la documentazione è sufficientemente importante da rendersi conto che non si tratta che di propaganda di guerra. A Srebrenica e nei dintorni sono stati uccisi tanti Sebi quanti musulmani bosniaci (circa 3.000 per entrambe le parti). La mediatizzazione del “massacro di Srebrenica” è della stessa natura di quella che ha portato a dire due mesi fa che Gheddafi ha bombardato la sua gente con gli aerei. Ci si inventa ogni volta un massacro per poter poi giustificare i veri massacri, quelli della NATO. In Bosnia i moujahidin afghani importati dai servizi anglosassoni con l’aiuto dell’esercito turco hanno giocato lo stesso ruolo degli “insorti” islamici di Bengasi. D’altronde si è tentato poco tempo fa di creare a Misurata la medesima messa in scena di Srebrenica, ma questa non ha funzionato (pensando alla storia delle bombe a frammentazione si sa che sono state sganciate dalla NATO).

G – Qual è il ruolo degli intellettuali serbi nel movimento di protesta?

YB – La Serbia è un paese dove esistono ancora degli intellettuali, vera gente di cultura. Non come in Francia, dove dei “citrulli pomposi” detengono il monopolio della diffusione delle idee e discutono tra di loro su tutti i canali televisivi per dire tutti la stessa cosa. In Serbia gli Americani hanno fallito nella loro offensiva sul Fronte culturale. Con la Fondazione Soros, essi hanno sì provato a comprare l’Unione degli Scrittori, ma non ci sono riusciti. Essi hanno speculato sulla povertà degli scrittori, sul loro disperato bisogno di denaro. Il solo ambito in cui sono riusciti a fare qualcosa tramite i media (soprattutto la televisione) che controllano, è quello della diffusione della subcultura di massa democratica occidentale a base anglosassone. I concerti rock, la diffusione dei reality televisivi. Essi sovvenzionano la promozione di questi elementi di disturbo, pagano le ONG, finanziano i siti internet. Gli Americani sono stati fino ad oggi molto generosi con le loro quinte colonne. I Russi sono incapaci di fare la stessa cosa. Quindi senza i russi, ai quali non si deve dare un assegno in bianco perché sono slavi ortodossi… il popolo serbo manifesta sempre la sua preferenza per le canzoni e le danze tradizionali, la musica bizantina, i canti sacri. Per ciò che viene dall’alba dei tempi e ricorda l’epopea. Moderno ma tipicamente serbo, il Festival delle Trombe di Guča, che riunisce ogni anno in un piccolo villaggio decine di migliaia di partecipanti, ha raggiunto una fama mondiale, per nient’altro che la sua qualità mentre la voga dei canti ortodossi, bizantini e neo-pagani non smette di aumentare. Questa affermazione culturale esplica la vitalità del movimento politico extra-parlamentare irrigato dalle idee trascinanti delle resistenza popolare.

Un esempio della sinergia tra cultura e politica: quando dopo le manifestazioni contro il provocatore Gay Pride il capo del Movimento Obraz e venti dei suoi compagni sono stati imprigionati, centinaia di scrittori, poeti e gente dello spettacolo hanno firmato una petizione per chiedere la loro liberazione. È molto attuale vedere degli intellettuali legati al movimento nazional-patriottico pertecipare a riunioni e manifestazioni di strada o addirittura capeggiarle.

C’è un fossato abissale tra la coscienza nazionale espressa dagli intellettuali serbi e i leader d’opinione occidentali. Dopo l’arresto del generale Mladić, la stampa occidentale ci ha riproposto i cliché che ci propina da quindici anni. Nessuna oggettività e sempre lo stesso vocabolario ostile. Si è fatto resuscitare questo linguaggio come scongelandolo. Giornalisti e politici si felicitano dell’arresto del “macellaio dei Balcani” (il titolo di una futura edizione della televisione de “la 2”) e evocano i benefici terapeutici del tribunale di La Haye. La stampa industriale continua a rimarcare quest’opinione e a ripetere queste menzogne. Credendo di vedere nell’“arresto di Mladic” (come dice) la fine di una storia, questo mezzo superficiale e artefatto non si rende conto che l’arresto del generale Mladić non mette fine al combattimento. La guerra continua con un movimento politico-sociale di contestazione generale che è la Nuova Resistenza Popolare all’azione e il movimento vittorioso di domani.

Yves Bataille, esperto conoscitore della Serbia, consigliere del movimento serbo SEDEP, co-autore de La lotta per il Kosovo (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007), è membro del Comitato scientifico di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici (Italia).

Traduzione di Alessandro Parodi

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Breve resoconto delle elezioni 2011 in Perù

$
0
0

Dopo un vantaggio ottenuto al primo turno con il 31,8% di preferenze, il candidato presidente Ollanta Humala si conferma il più votato anche nel giorno di domenica 5 giugno, giorno del ballottaggio disputato con l’avversario politico Keiko Fujimori, figlia di quell’Alberto Fujimori attualmente rinchiuso in carcere causa i massacri di Barrios Altos e dell’Università La Cantuta (in cui persero la vita rispettivamente 15 e 10 persone), sequestro di persona, tortura, l’assassinio dell’imprenditore Samuel Dyer e del giornalista Gustavo Gorritti durante l’auto colpo di stato del 1992 ed altre violazioni dei diritti umani.

Secondo i dati dell’ONPE (Oficina Nacional de Proceso Electoral) il partito di Ollanta, “Gana Perú”, ha ottenuto il 51,47% di preferenze contro il 48,53% realizzato da “Fuerza 2011” di Keiko Fujimori.
Anche in questa seconda tornata elettorale l’affluenza alle urne è stata molto elevata. Sempre secondo i dati forniti dall’ONPE si è attestata al 82,81%, solo l’1,09% in meno rispetto alla percentuale del primo turno.

A determinare la vittoria di Humala sono stati essenzialmente tre fattori chiave.
Innanzitutto, l’innegabile voglia di cambiamento politico da parte della popolazione peruviana, tra l’altro già determinata il 10 di aprile con il vantaggio di Humala rispetto a tutti gli altri candidati alla presidenza – l’alternanza politica non è da considerarsi sempre come l’ultima delle motivazioni.
In secondo luogo, in vista di un ballottaggio contro la figlia di Alberto Fujimori, è stata determinante la scelta di molti elettori che hanno optato per un voto contro la stessa Fujimori, proprio per non dover assistere ad un eventuale “Fujimori Secondo Tempo”. Il cognome di Keiko ha dunque influenzato parte della popolazione del Perù che inevitabilmente ha ricollegato il nome in questione ad un periodo oscuro della storia politica peruviana.
Le decisioni del premio Nobel Mario Vergas Llosa, come quella presa dall’ex presidente Alejandro Toledo, sono un chiaro esempio di quanto affermato. Entrambi hanno infatti deciso si sostenere il candidato Humala, nonostante le divergenze ideologiche, pur di non veder salire alla guida del Paese la figlia di quel Fujimori che loro stessi hanno combattuto.
Il terzo fattore chiave è da individuare nella svolta centrista del neo presidente.
Le preferenze espresse a favore di un modello governativo vicino all’ex presidente brasiliano Lula Da Silva, le rassicurazioni volte a mantenere il sistema economico attuale dello stato peruviano, le distanze prese dalle posizioni più radicali del collega venezuelano Hugo Chávez, hanno fatto in modo che la parte più moderata e centrista dell’elettorato si schierasse definitivamente a favore di Humala.

Resta comunque il fatto che quasi una buona metà della Nazione si sia espressa a favore di Keiko Fujimori. La vita politica di Humala non sarà dunque così facile.

 

Da un punto di vista geopolitico la vittoria del candidato di “Gana Perú” rappresenta un evidente colpo a Washington e all’attuale amministrazione Obama.
Con il Perù gli USA perdono un importante punto di controllo della regione amazzonica, così come viene meno un altro Stato collocato sul versante del Oceano Pacifico.
Rilevanti, a tal proposito, saranno le scelte di Humala riguardo i piani di Washington che tempo fa ha mostrato i suoi interessi ad installare nuove basi militari proprio all’interno del territorio peruviano.
Dall’altra parte, la vittoria di Humala rappresenta per la sinistra dell’America Indiolatina un nuovo fondamentale traguardo con il quale sarà possibile aumentare la cooperazione fra gli Stati della regione, raggiungendo un’ulteriore crescita politica ed economica, e soprattutto compiere un nuovo passo in avanti verso una totale indipendenza dalla Casa Bianca e dalle sue amministrazioni di turno.

 

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Andrea Perrone “Alla conquista dell’Antartide”

$
0
0

Giovedì 16 giugno, alle ore 17.00, presso la sede della Società Geografica Italiana (Via della Navicella 12/Villa Celimontana – Roma) si terrà la presentazione del nuovo saggio di Andrea Perrone “Alla conquista dell’Antartide” dedicato alla corsa delle grandi Potenze per lo sfruttamento delle risorse del Polo Sud.

Sarà presente l’autore e Paolo Sellari, Professore di Geografia Politica ed Economica presso il Dipartimento di Teoria Economica e Metodi Quantitativi per le Scelte Politiche, Università di Roma “La Sapienza”.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il ritorno di Zelaya e il futuro della Resistenza honduregna

$
0
0

Fonte: http://www.lahaine.org/index.php?p=54038

E’ tornato Mel Zelaya e il popolo honduregno è esploso di gioia e entusiasmo. La stessa gente che durante gli ultimi due anni ha dato vita alla più grande Resistenza centroamericana che la mente possa ricordare. Migliaia di uomini, donne e bambini sono scesi per le strade ed hanno affrontato militari e polizia, ostacolando le pallottole con i loro corpi e lasciando perire decine di morti in questa dura battaglia. Per l’occasione sono arrivati a Tegucigalpa da tutte le parti del paese per rivedere il loro leader.

 

E’ tornato Mel Zelaya e l’Honduras si è tinta del rosso della bandiera del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare e dell’azzurro della bandiera nazionale. Gli slogan “Sí, se pudo” (una sorta di “Sì, ce l’abbiamo fatta”, “Sì, è stato possibile”; Ndt) e “Fuera el imperialismo” si mescolavano ai fischi rivolti al governo di Porfirio Lobo e all’inno universale che accomuna tutti coloro che lottano in ogni angolo del mondo: “El Pueblo unido jamás será vencido” (Il popolo unito mai sarà sconfitto).

 

E’ tornato Mel Zelaya e subito ha ratificato pubblicamente l’Accordo di Riconciliazione firmato a Cartagena de Indias (Colombia) che include fra i suoi punti, l’investigazione sulle violazioni dei diritti umani (diritti che continuano ad essere calpestati quotidianamente dal governo Lobo), e la possibilità di realizzare un referendum con l’interesse di ottenere la tanto sperata Assemblea Costituente, per la quale il popolo honduregno è sceso in strada tante volte in questi due anni.

 

Eppure, nell’accordo qualcosa non torna, qualcosa che porta a porsi logiche perplessità, che dovrebbero far rimanere in guardia, d’ora in avanti, le migliaia di militanti della Resistenza, e ha a che vedere con quelle persone, ora presenti nel governo, che realizzarono il colpo di stato pro-yankee in Honduras e che, nonostante abbiano permesso il ritorno di Zelaya, non sarà facile che rinuncino a ciò che hanno conquistato tempo fa. Inoltre, uno dei mediatori per la concretizzazione dell’accordo è niente meno che un genocida del popolo colombiano, il presidente Santos, lo stesso che ha reso possibile che gli yankee installassero nove basi militari nel paese con lo scopo di minacciare tutti quei paesi non allineati con gli Stati Uniti.

 

Un altro punto di discordia è il quasi sicuro ingresso dell’Honduras nel OEA (Organizzazione degli Stati Americani), il che dovrebbe attualizzarsi la prossima settimana

(l’articolo è datato 30/05/2011 e l’ingresso è affettivamente già avvenuto; NdT). Non esiste alcuna ragione che possa convincere coloro che hanno lottato tutto questo tempo di un simile sproposito. Nessuno può dimenticarsi, per quanti discorsi politicamente corretti si possano scrivere, che Porfirio Lobo rappresenta il prosieguo della dittatura imposta nel 2009. Perché non provano a chiederlo ai maestri colpiti, torturati e assassinati, o ai giornalisti che poco a poco sono stati riempiti di proiettili dai paramilitari. O ancora peggio, perché non lo provano a chiedere ai contadini del Bajo Aguán che fino a ieri hanno sofferto la morte di decine di militanti. Mese dopo mese si sono scagliate contro di loro le guardie armate di Miguel Facussé (sostenitore finanziario dei golpisti) provocando veri e propri massacri che ancora oggi rimangono impuniti.

 

No, l’Honduras di Lobo non dovrebbe tornare a far parte dell’OEA, sono stati molto chiari a tal proposito i dirigenti della Resistenza Berta Cáceres, Carlos Reyes e Juan Barahona, affermando che sarebbe un “errore ingiustificabile”, visto che ancora non sono state risolte le esigenze popolari che di certo non si esauriscono con il ritorno di Zelaya.

 

E’ tornato Manuel Zelaya ed ha abbracciato il suo popolo che in cambio gli ha mostrato l’affetto guadagnato per essere stato il primo Presidente a pensare alle fasce più umili. Pur provenendo da un passato politico di centro destra è stato in grado di virare correttamente verso sinistra, dando alla luce proposte in gran parte progressiste in un paese che decenni addietro funzionava come enclave strategico di Washington.

 

E’ tornato Manuel Zelaya e ha promesso di approfondire l’avanzo della Resistenza che lui stesso coordina. Durante la manifestazione è stato presentato uno ad uno alla delegazione internazionale che lo ha accompagnato in Honduras dal Nicaragua, rivendicando la solidarietà latinoamericana, sempre presente durante il suo esilio. Valorizzando profondamente il ruolo di Brasile, Ecuador, Argentina ed ovviamente del Venezuela di Hugo Chávez.

 

Un discorso a parte meriterebbero le parole di un’altra sostenitrice di Zelaya, la combattiva senatrice Piedad Córdoba. Quando Mel le ha ceduto il microfono ha elogiato l’Honduras e la Resistenza, e con un gesto incomprensibile ha celebrato il genocida Juan Manuel Santos, invitando i presenti a ringraziarlo per la sua mediazione. Non ha ottenuto risultati: lo stesso saggio popolo che qualche minuto prima, nel momento in cui anche Zelaya aveva menzionato lo stesso personaggio, aveva mantenuto un obbligato silenzio senza avanzare alcun applauso e anzi, lanciando grida di dissenso, ha riproposto lo stesso gesto meritevole. Un istante dopo, senza dubbi, esultava a sentir nominare il nome di Hugo Chávez.
Alcuni dirigenti politici dovrebbero capire che la coscienza della gente comune non si costruisce con simili bruschi cambi di rotta, buoni solo a seminare sconcerto.

 

E’ tornato Manuel Zelaya. Sì, e tutti i lottatori del terzo Mondo potranno festeggiarlo dal momento che, nonostante gli accordi diplomatici, questa lotta si è vinta per strada. Se in tutti questi mesi la Resistenza non avesse mantenuto il braccio fermo e la solidarietà popolare internazionale non avesse dato il suo sostegno, il ritorno di Zelaya sarebbe stato difficile da immaginare.

 

Ora, un’altra volta e come sempre, ma con Zelaya presente, la battaglia contro coloro che due anni fa cacciarono il Presidente dovrà farsi ancora più intensa. Immaginare uno scenario diverso significa non conoscere i numeri di cui dispone il nemico che si affronta. Per i tempi che verranno la mobilitazione sarà la migliore autodifesa popolare. Il che è molto chiaro ai membri del COPINH (Consiglio di Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras), una delle organizzazioni coinvolte nella lotta da decenni: “Non ci fermeremo fin quando le strutture golpiste che oggi sono al potere, godendo dell’impunità nazionale e internazionale, saranno dissolte, e contro di loro che continueremo ad alimentare la nostra lotta, perché siamo un popolo dignitoso che non è disposto a retrocedere. Non dimentichiamo, non perdoniamo, non ci riconciliamo”.

 

(Traduzione di Stefano Pistore)

 

 

 

 

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Riflessi internazionali del “mancato arresto” di Yulia Tymoshenko

$
0
0

Lo smentito arresto dell’ex Primo Ministro dell’Ucraina Yulia Tymoshenko avvenuto tra il 23 ed il 24 maggio di quest’anno offre l’occasione per effettuare una serie di riflessioni sulla vita politica ucraina e sulla posizione internazionale delle fazioni che si contendono il controllo del Paese ex-sovietico.

 

Il presente articolo è suddiviso in tre parti principali:

 

– un breve quadro delle fazioni politiche attualmente al potere in Ucraina e le loro velleità internazionali;

 

– una sintesi delle vicende giuridiche della Tymoshenko, onde comprendere quale sia il background di tale recente vicenda giuridica e, più in generale, per tentare di descrivere la “qualità” dei rapporti tra la superstite leader dell’opposizione ed il governo in carica;

 

– una serie di riflessioni sul peso degli eventi citati nei rapporti internazionali dell’Ucraina.

 

Prima di iniziare, è d’uopo fare una foto delle varie fazioni politiche in Ucraina.

Attualmente il partito di governo è il Partito delle Regioni di Viktor Yanukovich, uscito vincitore grazie al verdetto delle urne di gennaio 2010. In Parlamento, il partito è alleato con il Partito Comunista Ucraino (ex alleato del blocco “liberale” solo una legislatura fa) e col Blocco Lytvyn, partito di cultura agraria. Il Partito delle Regioni, portavoce degli interessi della “classe operaia” e dintorni e soprattutto delle popolazioni russofone dell’est del Paese è di allineamento filorusso con riscoperte “radici sovietiche” sulla falsariga di Russia Unita. Ricordiamo che, a testimonianza delle velleità internazionali “duplici” di Yanukovich, il Partito delle Regioni ha un accordo di cooperazione con il gruppo socialista al Parlamento Europeo.

All’opposizione, dopo il tracollo di Viktor Yushchenko, le redini sono nelle mani di Yulia Tymoshenko e del BYUT (Blocco Yulia Tymoshenko), partito di coalizione che assimila varie forze apparentemente incoerenti, spazianti da un blando centro-sinistra fino al nazionalismo. Il partito centrista-liberale di Yushchenko si è spostato maggiormente a destra, in alcuni casi arrivando a prendere contatti persino con fazioni estreme come il partito Svoboda (“Libertà”), su posizioni xenofobe.

Il gioco oramai è una partita a due: il blocco filorusso guidato da “ex comunisti” e comunisti contro quello che comprende i residui della Rivoluzione Arancione, riuniti sotto un nuovo stendardo liberal-europeista e ora vicino al Partito Popolare Europeo.

 

Fatte queste dovute notazioni, è il caso di entrare in tema. Dopo la vittoria di Yanukovich, in molti – non solo dall’opposizione attiva in politica – hanno visto negativamente l’evento, temendo un probabile ritorno di un clima di scarsa trasparenza e democrazia. Eventi da questo punto di vista “sospetti”, perpetrati ai danni dell’opposizione e dei membri del caduto governo Yushchenko-Tymoshenko, sono iniziati in tribunale già dal marzo 2010, con l’incriminazione dei Ministri Danylyshyn (Min. Economia) e Lutsenko (Interni) per reati legati all’abuso d’ufficio. L’ormai politicamente “morto” Yushchenko non è stato coinvolto nelle indagini fino allo scorso 2 giugno, quando è stato convocato per un interrogatorio su temi legati al suo periodo di governo.

 

La Tymoshenko era già finita sotto accusa a maggio 2010 per la corruzione di un giudice nel 2004, un vecchio caso apparentemente insabbiato nel 2005. La stessa Tymoshenko azzardò l’ipotesi che il caso fosse stato rispolverato in concomitanza della visita del Presidente russo Medvedev, in una sorta di particolare captatio benevolentiae.

Le vicende legate al recente “arresto” sono invece iniziate il 15 dicembre, con l’apertura di un’indagine da parte della Procura Generale di Kiev sul “cattivo uso” di fondi ricevuti dal Ministero per l’Ambiente ucraino nell’ambito operativo del Protocollo di Kyoto: dopo cinque giorni la Tymoshenko è divenuta la sospettata numero uno per l’abuso dei fondi. L’ex Premier ha negato il fatto che i fondi fossero stati sottratti al Ministero in questione, per poi definire l’intero procedimento penale come una “caccia alle streghe” nei suoi confronti. Ella non fu subito arrestata, ma solo messa in condizione di non poter lasciare la capitale per tutta la durata (indefinita!) delle indagini. Le autorità hanno messo in stato di fermo l’ex Ministro per l’Ambiente Georgiy Filipchuk, in carica durante il secondo governo Tymoshenko; Filipchuk è dunque il terzo Ministro di quel governo a finire sotto accusa da marzo 2010. I membri del BYUT bloccarono fisicamente il Parlamento dopo la messa in accusa della loro leader. Lo stesso giorno, il Partito Popolare Europeo – “supporter comunitario” del BYUT – ha espresso la sua vicinanza alla Tymoshenko dichiarando di condannare “la crescita di una pressione aggressiva e politicamente motivata da parte delle autorità ucraine nei confronti dell’opposizione e del suo leader Yulia Tymoshenko”.

A margine, ricordiamo come già ai primi di dicembre 2010, il Procuratore Generale Viktor Pshonka avesse affermato di non avere motivi politici per portare alla sbarra la Tymoshenko e Lutsenko (senza però esprimersi sugli altri). Il 27 gennaio alle accuse ufficiali alla Tymoshenko si è aggiunta quella dell’uso – ovviamente illecito – di mille veicoli originariamente destinati a funzioni medico-sanitarie per potenziare la propria campagna elettorale, per un conto totale di 6,1 miliardi di euro pagati dai contribuenti ucraini.

In data 10 aprile la Procura ha accusato nuovamente l’ex Premier di abuso di potere durante la crisi del gas russo-ucraina del 2009, abuso che si sarebbe concretizzato nell’aver firmato un contratto decennale di forniture gas senza avere l’approvazione del resto del governo. E’ proprio tale capo d’accusa che ha rischiato di portare la Tymoshenko in prigione: il 24 maggio, dal suo stesso sito web, è trapelata la notizia del possibile arresto, smentita subito dopo dalle autorità. L’ex Premier ha affermato che la Procura non ha potuto trattenerla non solo a causa della non sussistenza del reato, ma soprattutto perché la pressione popolare per una sua “liberazione” è stata talmente forte da trasformare l’arresto in uno smacco politico troppo forte per il governo attuale. Invero, la Procura ha comunque deciso di fare “poker” qualche giorno dopo accusando in blocco tutto l’ex governo Tymoshenko di numerose frodi in tema di compravendita vaccini durante la crisi dell’influenza suina.

L’ultimo step del caso – risalente al 3 giugno – vede la Procura impedire alla Tymoshenko di lasciare il Paese per recarsi ad un incontro del Partito Popolare Europeo.

A margine, ricordiamo come la Rappresentante per la Politica Estera UE Catherine Ashton abbia espresso la sua preoccupazione e quella dell’intera Unione per i fatti giudiziari legati alla Tymoshenko ed i membri del suo governo; la Ashton ha inoltre sottolineato il fatto che un Paese con velleità “europee” come l’Ucraina non può prescindere dal rispetto di pluralismo e democraticità – dando dunque un chiaro segnale alle autorità ucraine.

 

A chiosa di quanto scritto, va ricordato come, al proliferare dei capi d’accusa, dalle autorità viene detto poco o nulla sull’andamento delle indagini, oggettivamente incrementando i sospetti sulla fondatezza delle stesse.

 

Detto questo, è doveroso effettuare alcune riflessioni per comprendere la rilevanza internazionale del caso.

 

Come nota iniziale, possiamo inquadrare questo “giustizialismo” dell’era Yanukovich come messa in atto di quanto da lui promesso e paventato sin dalla campagna elettorale presidenziale. Egli doveva scrollarsi di dosso l’immagine di Presidente “dei brogli”, rimastagli addosso dalla Rivoluzione Arancione, ed al tempo stesso doveva presentarsi come alternativa “onesta” ad un governo che dal punto di vista della trasparenza aveva innumerevoli falle.

A prescindere da tutto, comunque, l’operazione sistematica di attacco giudiziario a praticamente tutti i membri dell’opposizione non può che generare sospetti, senza contare il fatto che spesso parlamentari dell’opposizione decidono tutt’a un tratto di migrare nelle fila del Partito delle Regioni. Di contro, la linea difensiva della Tymoshenko sembra avere le stesse evanescenti basi dell’accusa, sembrando più che altro una sorta di “grido d’aiuto” all’esterno del Paese, come a voler attirare l’attenzione di enti e soggetti esteri sui soprusi da lei subiti – veri o presunti che siano.

 

Il punto saliente della vicenda si manifesta nel modo in cui – e forse qui ci sarà la tendenza ad usare logiche e terminologie che si credevano abbandonate dal 1989, ma in fondo mai sparite – lo scontro politico/giudiziario è lo specchio in patria dello scontro tra i due “blocchi”, quello filorusso e quello europeo-atlantico. L’opposizione della Tymoshenko ostenta e mette in pratica un europeismo forse ancor più intenso di quello mantenuto durante i turbolenti anni di governo: la sua azione è volta non solo a proporre un programma differente da quello di governo, ma soprattutto a screditare a livello internazionale oltre che nazionale l’esecutivo attuale, principalmente sui punti della vicinanza alla Russia e dell’alleanza con il Partito Comunista, evocando vecchi spettri di “oppressione sovietica”. A margine, ricordiamo comunque che, in maniera indesiderata o meno, i comunisti erano anche nella vecchia maggioranza degli “arancioni”. Il graduale spostamento verso un conservatorismo destrorso sul piano prima internazionale che nazionale dei partiti “arancioni” testimonia come l’attuale opposizione abbia un maggior desiderio di accaparrarsi il supporto occidentale mostrandosi “antisovietica” più che quello di fare una politica propositiva. Vero è che i consensi si allargano: i Popolari Europei li supportano, e l’attenzione dell’Unione Europea è sempre più viva sulle faccende interne ucraine, visto il timore di regresso democratico e “russificazione” di Kiev. A margine, in ogni caso, da Mosca sul caso Tymoshenko non ci sono state reazioni degne di nota, al contrario di quanto accaduto in Europa.

 

Paradossalmente, il progetto di graduale adesione all’Unione, tanto voluto dagli “arancioni”, potrebbe avere più chances di accelerare ora che al governo non vi sono i suoi maggiori sostenitori: il tutto dipenderà dalla volontà europea di fare pressione esterna contro il governo filorusso ergendosi a scudo dei diritti fondamentali, approfittando di una ghiotta occasione per togliere a Mosca la fondamentale pedina ucraina nel campo dell’Europa Orientale.

 

Dall’altro lato, è chiaro per Yanukovich e i suoi che la Tymoshenko e la sua rete di contatti internazionali siano fin troppo dannose per portare avanti una legislatura senza “intoppi” e per sviluppare le relazioni desiderate con la Russia e l’ex blocco sovietico. Distruggere la reputazione della Tymoshenko – sia su basi reali che fasulle – porterebbe alla legittimazione definitiva di Yanukovich in patria, rassicurando chi per lui simpatizza da est su di un futuro senza derive occidentalistiche. Di contro, se il piano di “eliminazione” della Tymoshenko dovesse riuscire, non sono prevedibili le reazioni dal fronte occidentale: anche se un eventuale arresto della Tymoshenko dovesse avere basi solide, Yanukovich potrebbe continuare ad essere visto come “il leader filorusso antidemocratico”. In ogni caso, già ora si può affermare che i ripetuti attacchi giudiziari all’opposizione hanno confermato la pessima reputazione di Yanukovich tra i Paesi europei occidentali: se davvero il Presidente ucraino, come la sua azione politica recente pareva stesse dimostrando, non voleva “inimicarsi” eccessivamente il partner europeo, questa epopea giuridica è un oggettivo errore di strategia internazionale.

 

In conclusione, gli sviluppi del caso dovranno essere osservati in primo luogo dal punto di vista giudiziario, dal quale si spera si otterranno delle risposte univoche o quantomeno soddisfacenti; in secondo luogo, l’intera questione dovrà ancora essere tenuta d’occhio dal duplice punto di vista delle relazioni politiche interne all’Ucraina e dei contatti internazionali tra le maggiori fazioni di questo Paese.

Per ora, ci si può solo limitare a dire che il Paese è diviso tra tendenze europeistiche forzate e un andamento verso una “democrazia protetta” che fa l’occhiolino a quella moscovita. Altre riflessioni saranno forzosamente subordinate a quanto verrà fuori dalle carte dei giudici di Kiev e alle reazioni nazionali e soprattutto internazionali a quanto potrà accadere.

 

 

*Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

«Macché Twitter, i ribelli sono islamisti» – D. Scalea a “Il Secolo d’Italia”

$
0
0
Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato intervistato da Adriano Scianca per “Il Secolo d’Italia” a proposito del suo ultimo libro – Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario – scritto assieme a Pietro Longo (redattore di “Eurasia”, ricercatore IsAG). Riproduciamo qui l’intervista e l’articolo di corredo di Adriano Scianca, entrambi apparsi nell’edizione odierna del quotidiano.

«Macché Twitter, i ribelli sono islamisti»

Lo studioso Daniele Scalea: «Nei nostri media dominano doppiopesismo e superficialità»

 

Macché “popolo di Facebook”, qui c’è la Fratellanza musulmana che si sta ramificando in tutto il mondo islamico. Ad affermarlo è Daniele Scalea, redattore di Eurasia e segretario scientifico del neonato Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag), primo centro di studi geopolitici nel nostro Paese. Coautore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe (Avatar, € 18,00, pp. 164), Scalea dà una versione della “primavera araba” diversa da quella dei media.

 

Allora, Scalea: ha seguito la storia della finta blogger siriana?

Sì, mi sembra sintomatica del livello di informazione che c’è sulle rivolte arabe. Un livello che definirei infimo.

 

Addirittura?

Certo. Pensiamo alle false notizie diffuse sul caso libico: dai 10 mila morti iniziali alle fosse comuni fino ai bombardamenti sugli oppositori. Purtroppo da un lato c’è chi diffonde notizie false ad arte, dall’altro c’è la scarsa professionalità dei nostri giornalisti.

 

Qualche esempio?

Be’, a volte si citano non meglio precisate “fonti dell’opposizione”. Chi sono? E perché dovrebbero essere più attendibili delle fonti ufficiali? Per non parlare di quando queste fonti vengono occultate e la loro versone diventa la verità sic et simpliciter…

 

E poi non mancano doppiopesismi…

Esatto. Prendiamo il Bahrein. Anche lì esistono filmati della polizia che spara sui manifestanti, ma non fanno notizia. Anche lì, come in Libia, il regime usa mercenari, ma il fatto non viene denunciato con lo stesso clamore.

 

E questo avviene perché il Bahrein è filo-occidentale?

Direi proprio di sì.

 

A proposito di falsificazioni: lei crede alla storia del “popolo di Facebook”?

No, non ha riscontri reali, basta guardare i dati sulla diffusione di internet nelle zone interessate. È pur vero che inizialmente, in Egitto, alcune organizzazioni giovanili hanno sfruttato i social network. Ma costoro non sarebbero mai riusciti a tirar fuori una protesta di massa. Ciò si è avuto solo quando è scesa in campo la Fratellanza musulmana. Che non ha successo grazie a internet, ha successo perché funge da “stato sociale” laddove il governo liberalizza e smantella.

 

Quindi ci sono i Fratelli musulmani dietro a tutto…

In Egitto mi sembra evidente il patto militari-Fratelli musulmani per gestire la transizione e creare uno stato che seguirà probabilmente il modello turco. Ma la Fratellanza è ormai radicata un po’ in tutti i Paesi e ha contatti con tutti gli attori in gioco.

 

Ma come, non erano rivolte laiche e occidentaliste, queste?

Macché, il minimo comune denominatore è proprio l’islamismo. Del resto chi è stato in Egitto ha parlato di slogan contro Israele e di accuse a Mubarak di essere troppo filo-occidentale. Uno studio di qualche anno fa sui combattenti stranieri in Iraq, molti di loro legati ad Al Qaeda, stilò una classifica dei Paesi di provenienza di queste persone. Sa da dove venivano la maggior parte di loro?

 

Afghanistan? Iran? Sudan?

Libia. Precisamente dalla regione di Bengasi…

 

(ad.sc.)

 

***

 

 

Quella “primavera araba” di bugie e finti blogger

 

La dissidente siriana? È tarocca, come molte informazioni sulle rivolte maghrebine

 

Adriano Scianca

 

D’accordo, lo stereotipo vuole le donne omosessuali in possesso di tratti particolarmente mascolini, ma la blogger siriana lesbica Amina Arraf forse esagera. Amina ha infatti il volto di Tom, barbuto 40enne americano. Ah, che brutti scherzi gioca internet. Soprattutto ai commentatori frettolosi, agli analisti da Twitter, ai geopolitici laureati su Google. E più in generale a tutti quelli che bevono tutto ciò che il circo mediatico somministra loro.

 

La beffa di Tom MacMaster

 

Tom MacMaster, a modo suo, merita un plauso. Prima dalla sua abitazione di Stone Mountain, Georgia, poi dall’università di Edimburgo, dove stava seguendo un master, l’uomo ha finto per mesi di essere Amina, una dissidente siriana – gay, per giunta – pronta a immolarsi per la causa della libertà e dell’informazione non allineata. Le sue cronache sulla “repressione” attuata dal perfido Bashir al-Assad hanno fatto il giro del mondo. Era il trionfo del citizen journalism, la rivincita della comunicazione spontanea, il coraggio che viaggia sulla rete. Non era vero niente. Tom si era inventato tutto. Poi ha chiesto scusa, cosa che certo non basterà a testate “autorevoli” come The Guardian – che sulla storia di Amina avevano puntato con convinzione – per recuperare credibilità. E qui si aprirebbe una parentesi anche sulla stampa estera che con vezzo provinciale continua a essere dipinta dalle nostre parti come la bocca della verità. Ma questa è un’altra storia.

 

Fosse comuni” a Tripoli

 

La storia della cosiddetta “primavera araba”, del resto, è un po’ tutta costellata di episodi simili. Un po’ per l’ingenuità, la faciloneria, la superficialità di certi operatori dell’informazione, un po’ per le imbeccate interessate di qualche furbacchione, un po’ per le due cose combinate insieme. Prendiamo il caso libico. Ok, Gheddafi non è precisamente un leader riformista e illuminato. Diciamo pure che è un satrapo un po’ megalomane. Talvolta ha la mano pesante nei confronti del suo popolo. Ce l’ha da 40 anni, a dir la verità, e la cosa non ha mai fatto troppo scalpore. Poi il vento cambia, diciamo intorno al febbraio di quest’anno. E allora una mattina apriamo il giornale troviamo la cifra di 10.000 (diecimila) vittime civili causate dalla repressione del colonnello. La cifra viene rilanciata dalla tv araba al-Arabiya, che cita le dichiarazioni del componente libico della Corte Penale Internazionale, Sayed al Shanuka, che parla anche di 50 mila feriti. Sono trascorsi pochi giorni dallo scoppio delle rivolte e certi numeri, raggiunti in così breve tempo, fanno impressione. Tutti sbattono la cifra in prima pagina. Poi non se ne parlerà più. Le stime dei giorni successivi saranno tutte molto, molto, molto inferiori a quei 10 mila morti. Ma intanto il panico mediatico è stato scatenato, il resto non conta. Lo stesso dicasi per le “prove” delle fosse comuni libiche. Si tratta di una foto diffusa il 22 febbraio che vede una decina di fosse (comunque “singole”, non certo “comuni”) in allestimento. Il tutto in una località segreta, per nascondere il frutto della repressione del dittatore? Macché, quello ritratto nella foto è il normale cimitero Ashaat di Tripoli.

 

I “ragazzi di Facebook”

 

E che dire della balla colossale della rivolta nata da Facebook, da Twitter, da YouTube? Che dire della frottola di una rivoluzione spacciata per spontanea, orizzontale, improntata sui “diritti” e le “libertà” intesi all’occidentale? È il solito vecchio vizio di casa nostra: ricondurre l’ignoto al noto, la complessità allo schema semplice semplice. E così tutti i complicati fattori culturali, religiosi, sociali, politici e geopolitici che hanno portato alle rivolte arabe vengono occultati dietro la storiella dei social network rivoluzionari. Nel loro fondamentale libro Capire le rivolte arabe (vedi box), Pietro Longo e Daniele Scalea sono andati a vedere i dati. E hanno scoperto che «tra i paesi attualmente in fermento, solo il Bahrein ha una diffusione elevata di internet (circa il 50% della popolazione), mentre in Yemen e in Libia è praticamente nulla, in Egitto, Siria e Algeria bassissima. In generale, nel Vicino Oriente meno del 30% della popolazione ha accesso a internet: il dato in Africa si riduce a poco più del 10%, anche se gli utenti si concentrano nella parte settentrionale del continente. In Siria, Libia, Algeria, Iran e altri paesi solo una percentuale infima del già ridotto bacino d’utenza internet usa il portale Facebook». E quindi? I rivoltosi del Maghreb sono tutti delinquenti o agenti del “Grande Satana”? No. Forse hanno persino ragione. Ma dovremmo smetterla di farci le cose più semplici di quelle che sono…

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Le Relazioni tra l’Iran e l’Egitto post-Mubarak

$
0
0

Le relazioni tra due paesi con una posizione strategica come Iran ed Egitto nel vicino oriente sono state sempre altalenanti. Negli ultimi tre decenni i due paesi hanno mantenuto una distanza politica che arrivò al suo apice con l’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat, per mano di Khalid Islambouli nel 1981. Gli accordi di Camp David firmati dal paese africano con Israele per i quali l’islamista Islambouli si è vendicato portando al termine l’uccisione del presidente, erano già una delle motivazioni della divisione politica e ideologica tra i due paesi. Precedentemente, nel 1979 il governo dell’Egitto concesse l’asilo politico a Mohammad Reza Pahlavi, lo Shah appena deposto dalla revoluzione islamica. Considerando questi antefatti si può immaginare l’importanza della ripresa dei rapporti tra Iran ed Egitto; i conflitti e le ostilità hanno continuato il loro corso fino alla caduta del rais, Hosni Mubarak, che ha consegnato le sue dimissioni l’11 febbraio del 2011. Si potrebbe parlare forse di un unico tentativo d’avvicinamento di questi due paesi nel febbraio 2008; allora ministro degli Esteri iraniano Manouchehr Mottaki, durante una visita al Cairo dichiarò che Iran ed Egitto erano sul punto di riprendere i legami politici, ma la situazione percepitò nel dicembre dello stesso anno quando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad accusò il governo di Mubarak di essere complice di crimini di Gaza.

Nabil Arabi il nuovo ministro degli esteri dell’Egitto, il 30 marzo, un mese dopo la caduta del rais ha dichiarato che il paese è pronto per espandere i rapporti con l’Iran anche se questa apertura verso il paese del golfo persico non giova ai due alleati politici,Israele e Stati Uniti, “egiziani ed iraniani meritano di avere le relazioni reciproche che riflettano la loro storia e civiltà: l’Egitto non considera l’Iran come un paese nemico” ha precisato il ministro egiziano . Queste dichiarazioni vengono fatte mentre le navi militari iraniane passano dopo 30 anni attraverso il canale di Suez. Intanto Tehran risponde con entusiasmo alle affermazioni del portavoce del Ministero degli esteri egiziano Mehna Bakhum, annunciando che presto verrà nominato il suo primo ambascitore al Cairo.

Questa ripresa dei rapportori politici tra Iran ed Egitto è un motivo di preoccupazione per Israele, che ritiene che Tehran possa usare la sua influenza per cambiare l’opinione pubblica per opporsi a Israele e usare il territorio egiziano come base di spionaggio. La maggiore preoccupazione d’Israele ad ogni modo sembra essere un possibile attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane. Ipotizzando un miglioramento radicale nei rapporti politici tra i due paesi, Israele teme che l’Iran possa usare a sua volta il territorio egiziano per attaccare gli obiettivi israeliani.

Mentre i due paesi si scambiano ambasciatori, l’occidente si interroga sulle conseguenze di questo rapporto rimasto congelato per anni che sta riconsolidandosi in un momento che coincide con una ripresa di coscenza politica da parte dei paesi arabi: quale potrebbe essere la conseguenza di questa riconciliazione ora non è prevedibile.
Iran ed Egitto sono due paesi con forze armate considerevoli e rappresentano entrambi il popolo musulmano; il primo il caposaldo sciita e il regime degli Ayatollah e il secondo la parte sunnita e più moderata.

C’è già chi afferma che il governo attuale d’Egitto probabilmente è più islamico di quello di Mubarak e che questo fattore avrebbe portato ad una nuova apertura ed a una ripresa di rapporti politici verso l’Iran, relazione che per anni dopo il trattato di pace di Camp David tra Egitto ed Israele si era interrotta.

Il rapporto tra Egitto ed Israele si incrina di più quando il paese islamico a maggio del 2011 raddoppia il prezzo della fornitura della gas naturale; non è certo che questa sia stata una conseguenza della ripresa dei rapporti tra Iran ed Egitto, ma di certo potrebbe essere letta come un’altra provocazione fatta da parte di quest’ultimo nei confronti di Israele che prima della caduta del rais poteva contare su un alleato fidato nel caso di un conflitto con l’Iran. Non è ormai mistero che da anni Tehran sostiene i diversi gruppi “d’opposizione islamica”, fornendo armi ed appoggi economici.

In questo clima di incertezza, il governo transitorio egiziano dopo tre mesi dal cambiamento radicale susseguito dalle manifestazioni ed opposizioni contro il vecchio regime ora si trova a dover attuare una nuova strategia politica-economica con i paesi esteri, fatto questo che potrebbe cambiare completamente lo scenario della regione.

Sajjadi Parisa Sadat è dottoressa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università dell’Aquila.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Gwadar, la competizione sino-statunitense e lo smembramento del Pakistan

$
0
0

La recente visita del primo ministro pakistano Yusuf Gilani a Pechino è stata un’importante occasione per rafforzare lo stretto legame esistente tra Cina e Pakistan. Il consolidamento delle relazioni sino-pakistane degli ultimi anni è legato alla competizione in corso tra Stati Uniti e Cina in Asia Centrale e Meridionale, nonché al peggioramento dei rapporti tra Washington e Islamabad. La Cina è stato l’unico paese ad aver sostenuto diplomaticamente il Pakistan in seguito alla vicenda legata alla presunta esecuzione di Osama Bin Laden e l’ultima visita del premier pakistano a Pechino è stata contraddistinta dal sostegno cinese al rispetto dell’integrità territoriale del Pakistan. A margine dell’incontro bilaterale l’attenzione dei media si è focalizzata, inoltre, sul porto di Gwadar, un importante nodo strategico del Belucistan pakistano, realizzato nel corso dell’ultimo decennio grazie al concreto aiuto finanziario cinese. Il ministro della difesa pakistano Ahmed Mukhtar ha rilasciato una dichiarazione alla stampa secondo la quale il Pakistan sarebbe favorevole a un’eventuale presenza nel porto di Gwadar di una base navale cinese. Nonostante la Cina abbia ufficialmente smentito la dichiarazione del ministro pakistano, l’attenzione cinese per Gwadar rappresenta sia per la Cina che per il Pakistan una fondamentale risorsa per il futuro; la presenza di Pechino lungo le coste bagnate dal Mar Arabico è vista in maniera fortemente negativa da parte di diversi attori internazionali, su tutti India e Stati Uniti. La questione può portare a diverse considerazioni di carattere geopolitico, ma si può collegare alla stabilità stessa e alla sicurezza interna del Pakistan, data l’instabile e rilevante regione in cui si trova Gwadar, il Belucistan.

L’importanza strategica del porto di Gwadar e gli interessi della Cina

Il porto di Gwadar, situato in una regione ricca di gas naturale, carbone e minerali, è un importante nodo di collegamento fra tre aree fondamentali dal punto di vista geostrategico: il Vicino Oriente, l’Asia Meridionale e l’Asia Centrale. La città di Gwadar si trova a soli 72 km dal confine iraniano e dista 400 km dallo Stretto di Hormuz nel Golfo Persico, l’importante rotta di trasporto di petrolio che collega via mare l’Europa, l’Asia occidentale e l’Africa all’Asia orientale. L’area attorno a Gwadar può essere una fondamentale base di controllo delle rotte marittime provenienti dall’Europa, dall’Asia orientale e dall’Africa grazie ai suoi collegamenti con lo Stretto di Hormuz, con il Mar Rosso e il Golfo Persico. Il porto pakistano è, inoltre, il punto d’accesso per l’Oceano Indiano più vicino per i paesi dell’Asia Centrale. Data la seguente posizione geografica, appare evidente il motivo per cui la città di Gwadar attiri l’attenzione di diversi paesi asiatici e non solo. Pechino intensificò il proprio impegno a Gwadar subito dopo l’intervento statunitense in Afghanistan, investendo circa 200 milioni di dollari durante la prima fase di progettazione, completata come previsto nel 2005. L’attenzione cinese per Gwadar è connessa a tre aspetti fondamentali: la storica alleanza con il Pakistan, gli interessi economici e le questioni legate all’approvvigionamento energetico. Per quanto riguarda i risvolti economici, l’attenzione di Pechino per la città pakistana è legata alle possibili rotte commerciali che potrebbero collegare lo Xinjiang al Mar Arabico. La realizzazione di strade e ferrovie connesse a Gwadar garantirebbe l’afflusso di beni cinesi in Asia Centrale, sostenendo lo sviluppo delle regioni occidentali della Cina. Gwadar dista dallo Xinjiang 1500 km circa, mentre i porti della costa orientale cinese si trovano a 3500 km da Urumqi. Il territorio pakistano farebbe da transito, inoltre, di potenziali gasdotti e oleodotti collegati allo Xinjiang, rendendo possibile la diversificazione cinese delle proprie fonti di energia e riducendo la dipendenza dal trasporto via mare del petrolio, in particolar modo dallo Stretto di Hormuz e da quello di Malacca. L’eccessiva dipendenza cinese da queste fonti renderebbe, infatti, l’approvvigionamento energetico troppo rischioso per la propria sicurezza. La presenza a Gwadar è valutata, invece, come un’alternativa importante al fine di ottenere le risorse necessarie provenienti dal Medio Oriente, collegando il porto pakistano all’Iran, dall’Africa e dall’Asia Centrale.

La percezione statunitense della presenza cinese a Gwadar

L’impegno cinese alla costruzione del porto di Gwadar è stato valutato fin dal principio negativamente da Stati Uniti e India. Sia Washington che Delhi osservano la presenza cinese nel Mar Arabico collegabile alla strategia del “filo di perle” cinese attorno all’Oceano Indiano. Attraverso la creazione di basi navali in punti strategici dal Vicino Oriente al Mar Cinese Meridionale, la Cina metterebbe in pratica un disegno di carattere sia offensivo che difensivo per proteggere i propri interessi energetici e di sicurezza. Inoltre, dal punto di vista statunitense, è percepito negativamente il controllo da parte cinese delle rotte commerciali marittime attraverso le quali avviene il trasporto del petrolio. Per quanto concerne Gwadar, secondo Washington e Delhi, la Cina avrebbe la reale intenzione di costruire una propria base navale, dotandosi di sofisticate apparecchiature elettroniche in grado di monitorare il traffico navale dello Stretto di Hormuz e del Mar Arabico, nonché l’attività delle marine militari statunitense e indiana. L’attenzione degli Stati Uniti per Gwadar e la possibile presenza cinese nella città è legata a questioni di carattere militare, geostrategico e di approvvigionamento delle risorse energetiche. Gli Stati Uniti importano una grande quantità di petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz e il Golfo Persico. Dal punto di vista statunitense la presenza di un pericoloso rivale a Gwadar è valutata come una minaccia per il proprio rifornimento di risorse e per la sicurezza energetica degli alleati. L’approvvigionamento energetico è, inoltre, legato a importanti implicazioni di tipo politico e di influenza strategica. Nel caso in cui ci fosse una forte presenza cinese in Pakistan, attraverso la creazione di una propria base navale a Gwadar, non si registrerebbe solamente la perdita di influenza statunitense su Islamabad; le risorse provenienti dal Medio Oriente, infatti, potrebbero essere indirizzate nelle province cinesi orientali eludendo lo Stretto di Malacca, sotto controllo statunitense, ed eventualmente giungere in futuro in Giappone e Corea del Sud. Si potrebbe dunque sviluppare una nuova rotta energetica, con il declino dell’importanza strategica dello Stretto di Malacca, influenzando decisamente la geopolitica dell’Asia Meridionale e Orientale. Una delle preoccupazioni fondamentali degli Stati Uniti è che il nodo strategico di Gwadar non solo riduca la dipendenza cinese dallo Stretto di Malacca, ma crei degli interessi energetici in comune tra Pakistan, Cina, Giappone e Corea del Sud, rendendo questi ultimi potenzialmente più vicini alla Cina che all’influenza statunitense. Un altro motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti riguarda il controllo del Pakistan. Il paese ha una notevole importanza per la sua particolare posizione poiché rappresenta il naturale accesso dei paesi dell’Asia Centrale al Mar Arabico e all’Oceano Indiano. Controllando Islamabad, si possono controllare le importazioni di idrocarburi dell’Asia Orientale e le esportazioni di risorse dirette al Mar Arabico. L’influenza statunitense sul paese non è solo servita nel passato a garantire il soddisfacimento degli interessi di Washington in Afghanistan, ma in generale a sostenere l’azione statunitense in Vicino Oriente, Asia Centrale e nell’Oceano Indiano. I paesi confinanti con il Pakistan, Afghanistan, Iran, India e Cina sono gli Stati sui quali si concentrerà l’attenzione futura della politica estera della Casa Bianca. E’ evidente come un Pakistan troppo strettamente legato alla Cina, primo grande concorrente dell’area, non sia gradito a Washington. La presenza cinese a Gwadar, secondo l’ottica degli Stati Uniti, renderà Islamabad sempre più dipendente dalla Cina, danneggiando gli interessi geostrategici statunitensi in Pakistan e conseguentemente in Medio Oriente, Asia Centrale e nell’Oceano Indiano.

Gwadar, il Belucistan e la “balcanizzazione” del Pakistan

E’ evidente come da alcuni mesi i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan siano sempre più tesi. La vicenda di Gwadar e lo stretto rapporto esistente tra Islamabad e Pechino offrono una spiegazione dell’allontanamento tra i due paesi. Nei prossimi mesi l’attenzione di Washington sul Pakistan sarà sempre più forte, avendo come ultimo obiettivo, comunque, l’ostacolare gli interessi cinesi nell’area. Gwadar si trova in Belucistan, una delle regioni più povere del Pakistan e contraddistinta fin dagli anni dell’indipendenza pakistana da un movimento insurrezionale e indipendentista. Diversi analisti del Pentagono e numerosi think-thanks statunitensi, come è il caso del neoconservatore Project for the New American Century (PNAC), hanno posto l’attenzione nei confronti del Belucistan1. Considerato il movimento indipendentista beluci, le diverse etnie presenti in Pakistan e le implicazioni di carattere geopolitico, è in auge nel corso degli ultimi anni la strategia volta al favorire la “balcanizzazione” del Pakistan, lo smembramento del paese in diverse entità statali per motivi geostrategici2. Selig S. Harrison, direttore dell’Asian Program presso il Center for International Policy, ex membro del Carnegie Endowment for International Peace ed ex giornalista, sosteneva nel 2008 il fatto che nel caso in cui non si fosse verificata a breve termine una ristrutturazione generale della società multietnica del Pakistan, lo Stato asiatico sarebbe di lì a poco collassato. Lo stesso Harrison ha sostenuto la possibile implosione pakistana in tre distinte entità statali, ricalcando le differenze etniche presenti nel paese: un’area pashtun nel Nord-Ovest da unire all’Afghanistan con l’eliminazione della linea Durand;,liminazione della linea Durand tista beluco una sindhi nel Sud-Est unita all’area beluci del Sud-Ovest con la nascita del Belucistan eventualmente unificato alla stessa minoranza etnica presente in Iran; il territorio dei punjab nel Nord-Est, l’unica parte che rimarrebbe al Pakistan. Harrison spiega che l’avversione della minoranza pashtun nei confronti dei punjab, i quali avrebbero soggiogato dal 1947 le minoranze del Pakistan unificato sotto la loro guida appropriandosi delle ricche risorse presenti nelle restanti province, è legata strettamente al sostegno delle popolazioni Nord-Occidentali per i talebani lungo il confine afghano-pakistano. In questo modo, secondo Harrison, il Pakistan non riuscirebbe in alcun modo a garantire una cooperazione adeguata ai desideri statunitensi in Afghanistan a causa delle ricordate divisioni etniche3. Le implicazioni della strategia per la “balcanizzazione” del Pakistan sarebbero principalmente tre: mettere in sicurezza i corridoi energetici strategici seguendo gli interessi statunitensi; bloccare l’accesso cinese alle risorse presenti in Asia Centrale e i programmi legati al porto di Gwadar, nonché i potenziali collegamenti con il petrolio iraniano; destabilizzare lo stesso Iran, promuovendo l’indipendenza del Belucistan. Naturalmente si tratta di discorsi puramente teorici, e il reale collasso del Pakistan porterebbe a delle conseguenze imprevedibili, vista la presenza di armi nucleari, una popolazione di 187 milioni di abitanti e l’area delicata in cui si trova il Pakistan, confinante con Iran, Cina, India e Afghanistan, quest’ultimo, come l’Iraq, in una perdurante situazione di guerra. E’ significativo comunque il fatto che i raid statunitensi in Pakistan, lungo il confine con l’Afghanistan, siano in continuo aumento, rafforzando nello stesso tempo il nazionalismo pashtun; contemporaneamente, il movimento indipendentista beluci ha registrato negli ultimi tempi considerevoli sostegni negli Stati Uniti, come testimonia l’incontro tenutosi a Washington e organizzato dalla Baloch Conference of North America presso il Carnegie Endowment for International Peace lo scorso 30 aprile. Durante la conferenza il Pakistan è stato descritto come un paese terrorista e chiaramente inadatto all’alleanza con gli Stati Uniti, spingendo per una pacifica “balcanizzazione” del paese con conseguente smembramento dello stesso4. L’India, sostenitrice da tempo dell’indipendenza del Belucistan, vedrebbe con favore un simile scenario perché, oltre a far collassare lo storico nemico, colpirebbe gli interessi della Cina e favorirebbe il diretto accesso indiano alle risorse centro-asiatiche. Il problema è che la nascita di nuove entità statali su basi etniche sarebbe controproducente per la stessa Delhi, poiché potrebbe verificarsi la recrudescenza delle spinte indipendentiste di diversi movimenti autonomisti presenti negli Stati indiani, in particolar modo in Kashmir. La questione è dunque molto complicata e foriera di diverse implicazioni geopolitiche. Bisognerà attendere gli sviluppi dei prossimi mesi per comprendere dove porteranno gli attuali contrasti tra Stati Uniti e Pakistan. Quest’ultimo, non solo appoggiato dalla Cina, ma recentemente anche dall’Arabia Saudita, considerato l’importante sostegno offerto da Islamabad alla politica saudita di contrapposizione ai movimenti insurrezionali in Bahrein e nel resto del Vicino Oriente, nonché al ruolo di guida del mondo musulmano-sunnita ricoperto da Riyadh in contrapposizione all’Iran.

 


*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 


  1. http://www.islamabadtimesonline.com/beijing-washington-dc-and-the-gwadar-port-the-new-game-plan-is-not-that-new%E2%80%A6/

  2. http://www.armedforcesjournal.com/2006/06/1833899
  3. http://www.nytimes.com/2008/02/01/opinion/01harrison.html
  4. http://www.crisisbalochistan.com/secondary_menu/news/2011-balochistan-international-conference-washington-dc-usa.html

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Difesa Continentale – Un grande passo in avanti

$
0
0

Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2011/06/defensa-continental.html

La creazione del Centro di Studi Strategici per la Difesa all’interno dello schema Unasur contribuisce a consolidare l’unione regionale

 

In un mondo dove è diventato naturale il vassallaggio delle sovranità nazionali verso le potenze egemoniche centrali, sembrava improrogabile la creazione di un organismo continentale dedicato agli studi strategici nel settore della difesa.

Appare semplice enucleare il problema chiave: il Sudamerica è un regione ricca di risorse naturali che stuzzicano l’appetito delle potenze egemoniche ed è reale, dunque, la necessità di preservarle.

Al fine di corroborare questa visione il direttore del nuovo Centro di Studi Strategici per la Difesa (Centro de Estudios Estratégicos para la Defensa, CEED), Alfredo Forti, ha sottolineato che « l’abbondante presenza di risorse naturali strategiche definisce la posizione sudamericana nel mondo e quando una risorsa è scarsa e possiede un qualche valore strategico per un altro attore, essa diviene strategica per chi lo possiede, anche qualora quest’ultimo non abbia i mezzi per il suo sfruttamento e consumo”.

Anche se nella regione uno scenario così definito affondi le sue radici indietro nel tempo, fino alla scoperta dell’America, la crescita smisurata degli ultimi 50 anni provocata dall’applicazione del neoliberalismo selvaggio ha portato i paesi più forti a praticare politiche di appropriazione spietate verso i paesi della periferia del mondo.

In tal modo si spiegano le invasioni di Iraq e Afghanistan e il perfezionamento in ottica semplificatrice di tale modalità d’azione in Libia, dove si è perso qualsiasi freno morale, cosicché non è stato ritenuto necessario garantire la benché minima giustificazione di facciata per legittimare le invasioni armate miranti a razziare paesi sovrani.

In questo frangente è necessario rendersi conto del fatto che si tratta solo di una questione di tempo prima che il Sudamerica diventi l’obiettivo di quelle potenze che dipendono talmente tanto dall’appropriazione di risorse altrui al punto da aver raggiunto livelli fantascientifici riguardo allo sviluppo dello strumento militare, essenziale per perpetrare tali saccheggi.

In questo scenario si inscrive la recente creazione della CEED all’interno dello schema Unasur.

Gli obiettivi iniziali del nuovo organismo si esplicitano nell’identificazione di quegli interessi che debbano essere difesi e sviluppare accordi che, da un piano teorico, convertano la difesa regionale in una realtà.

La creazione della CEED appare inevitabile in questo momento in cui i paesi del Sudamerica hanno avviato processi politici tendenti a disarticolare i meccanismi predatori ereditati dall’epoca coloniale e a favorire lo sviluppo sovrano delle loro comunità.

Tali processi politici sono accompagnati dalla creazione di istituzioni sovranazionali di carattere regionale e d’origine opposta allo storico “dividi e domina” che, praticato dalle potenze imperialiste, propugnava una molteplicità di nazioni deboli e facilmente influenzabili. Da questa concezione ottocentesca scaturirono la Guerra della Triplice Alleanze e quella del Chaco che hanno spazzato il Paraguay o quella del Pacifico che ha privato la Bolivia del litorale.

Parallelamente, rompendo il legame fraterno tra queste nazioni sorelle, tale concezione causò un sentimento di sfiducia reciproca e la creazione di Forze Armate autonome – ben lontane dallo spirito degli eserciti di liberazione plurinazionali di San Martín e Bolívar – che, di fatto, sono servite solamente come uno strumento di repressione verso quelle società che avrebbero dovuto proteggere e fortemente ostile nei confronti dei vicini.

Per questo la creazione della CEED rappresenta solo il primo passo lungo il percorso per giungere a una concezione centralizzata e olistica della Difesa continentale.

In questo senso, la Segretaria generale dell’UNASUR, María Emma Mejía, ha sostenuto che “L’unità regionale è al di spora delle divergenze” e il Ministro della Difesa argentino, Arturo Puricelli, continuando sulla stessa linea ha affermato che il nuovo organismo funzionerà come “una fucina di pensiero” per la difesa degli “interessi sudamericani”.

Non esiste un altro modo per farlo: in un primo momento, è necessario individuare gli obiettivi critici che possono entrare in conflitto. Successivamente, bisogna stabilire delle modalità condivise per difenderli e, infine, vanno creati gli organismi – tra cui forze armate unificate – capaci di portare avanti questi compiti.

Proprio quest’ultimo, forse, è il passaggio che appare più difficile da realizzare nel breve periodo poiché richiede l’abbandono di concezioni storicamente ben presenti all’interno delle forze armate dei paesi sudamericani e la loro sostituzione con un paradigma di progresso: una difesa sudamericana integrata.

In effetti, le lamentele di certi settori militari in Argentina circa la “distruzione materiale delle forze armate” o l’opposizione cilena al concedere l’accesso al mare per la Bolivia costituiscono alcuni esempi della convinzione che i paesi del sud siano ancora capaci di sostenere da soli la difesa della loro sovranità e sono funzionali al “vecchio dividi e domina” di stampo ottocentesco.

È sufficiente un esempio pratico per meglio comprendere la situazione sin qui delineata. Visto lo stato attuale delle cose, non vi è modo, per le forze armate argentine, di garantire da sole il controllo sulla Patagonia difendendola nei confronti del potenziale di quei paesi che la bramano e che, arrivato il momento, non faranno altro che prendersela. Stessa cosa varrebbe qualora si parlasse della capacità delle Forze Armate brasiliane di difendere l’Amazzonia.

Non appare neanche utile pensare a investire nell’ammodernamento ed equipaggiamento degli eserciti nazionali ognuno per conto suo. La fu Unione Sovietica all’epoca distrusse letteralmente la sua economia nella convinzione che fosse possibile sostenere una corsa agli armamenti allo stesso livello tecnologico e in competizione con le risorse disponibili per le potenze occidentali.

Presto o tardi, la necessità porterà alla creazione di un esercito unificato sulla base di una nuova ideologia che superi la divisione in nazionalità esistente, a vantaggio di una visione latinoamericanista che le allontani dal carattere mercenario delle forze armate dei paesi che auspicano l’imposizione dell’Impero Globale Privatizzato, ma che, allo stesso tempo, si dimostrino all’altezza della sfida di affrontarli.

Tuttavia, sarebbe ben altra cosa, vista la grandezza del progetto, pensare a uno sforzo continentale combinato e supportato nei suoi vari livelli di attuazione mirante a ostacolare qualsiasi pretesa di conquista, visto che, come sostiene Alfredo Forti, “l’estensione territoriale del Sudamerica, come unità geopolitica, ci posizionerebbe come il paese più grande del mondo con la terza economia su scala planetaria”.

Questo  nuovo paradigma di difesa continentale – che fornisce nuova linfa alle forze armate dei paesi della regione – ha ricevuto un ulteriore riconoscimento dalla creazione presso Warnes – dipartimento di Santa Cruz de la Sierra, Bolivia – della Scuola di Difesa e Sicurezza dell’ALBA (Escuela de Defensa y Seguridad del Alba, EDSA), un istituto di formazione di quadri militari sganciati dalle formule militari imposte da Washington.

AL riguardo la Ministra di Difesa della Bolivia, María Cecilia Chacón, ha sintetizzato l’obiettivo della nuova istituzione affermando che essa servirà a “formare leader militari e civili orientati verso la Difesa e la Sicurezza integrate e definirà il nuovo ruolo delle Forze Armate dei paesi dell’ALBA”.

Anche durante l’inaugurazione della EDSA il presidente Evo Morales ha chiesto al personale militare presente di istituire corsi di formazione nelle loro Armi d’appartenenza per evitare l’indottrinamento ideologico di stampo statunitense.

Un nuovo potere militare regionale dovrebbe anche essere al servizio di una gestione centralizzata ed essere eseguito da militari che dominino la dottrina, conoscano le tattiche e l’equipaggiamento comune e che siano immersi in una atmosfera ideologica nuova che potrà essere garantita solamente da un ambiente anch’esso condiviso.

Riassumendo, il compito di mettere in pratica la difesa implica la fondazione ex novo di tutti gli organismi che attualmente si occupano di tale attività ognuno per conto suo e richiede l’educazione centralizzata dei cittadini sudamericani che scelgano la carriera militare per vocazione.

La divisione regionale delle visioni strategiche statunitensi plasmate secondo le dottrine di “sicurezza nazionale”; o la “lotta al narcotraffico” e la vecchia “difesa dal comunismo” inscritte nel Plan Colombia; l’iniziativa Merida o il Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca (TIAR) e la sua sostituzione con dottrine che sostengano l’Unione Latinoamericana: queste sono le questioni che configurano la grande sfida.

(Trad. di F. Saverio Angiò)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Discorso del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al vertice dell’Organizzazione di Shanghai

$
0
0

Fonte: “Irib

 

Nel Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

 

La Lode appartiene al Signore dei due mondi ed elogi e pace sul nostro patrono e profeta Mohammad e sulla sua sacra famiglia e sui suoi discepoli vicini e su tutti i nunzi e i messaggeri(di Dio/ndr).
O nostro Allah affretta l’apparizione del Tuo prescelto(il Mahdi/ndr), garantisci a lui la salute e la vittoria e collocaci tra i suoi migliori seguaci e sostenitori, pronti a lottare per la sua nobile causa.
Sua Eccellenza Nur Sultan Nazarbayev, egregio presidente del Kazakistan,

Rispettabili presidenti e delegazioni,

ringrazio il gran Dio per avermi dato la fortuna di partecipare a questa riunione e di essere in questo gruppo amichevole e ringrazio per la calorosa accoglienza e l’ottima gestione della riunione ad opera del rispettabile presidente Nazarbayev.

Voglio porgere i miei auguri per il decimo anniversario della formazione dell’Organizzazione di Shanghai e il ventesimo anniversario dell’indipendenza del Kazakistan; mi auguro che questa seduta possa essere un passo importante nel raggiungimento degli obbiettivi prestabiliti.

Vossignorie,

con il massimo del rispetto e dell’amicizia, oggi voglio parlare di ‘reponsabilità internazionali’.

Ed inizio con alcune domande.

C’è tra di noi un solo paese che abbia avuto un ruolo nella creazione del fenomeno oscuro dello schiavismo e nella morte di milioni di persone?

C’è solo uno dei nostri popoli che abbia imposto ad altre parti del mondo il colonialismo?

C’è una sola nazione tra di noi che abbia rubato la cultura e la ricchezza degli altri popoli attraverso i metodi del colonialismo?

C’è uno solo dei nostri paesi che abbia motivato le due guerre mondiali ed abbia causato la morte, il ferimento e la fuga di decine di milioni di persone in tutto il mondo?

C’è qualcuno tra di noi che abbia usato la bomba atomica contro i cittadini indifesi di altri paesi?

C’è un solo paese tra i nostri che abbia imposto al Medioriente il Sionismo e con esso numerose guerre, 60 anni di insicurezza, terrore e minacce contro il popolo palestinese e gli altri popoli della regione?

Siamo stati noi a sostenere il potere dei dittatori in America Latina e nelle altre regioni del mondo?

Ma quale dei nostri paesi ha avuto il più piccolo ruolo nell’11 Settembre e nel successivo attacco all’Afghanistan e all’Iraq che ha portato alla morte ed al ferimento di milioni di persone?

L’estremismo ed il terrorismo, in Afghanistan, Iraq e Pakistan e il traffico di stupefacenti lo abbiamo creato e sostenuto noi?

La regione e i nostri popoli sono stati favoriti o danneggiati dal terrorismo, dall’estremismo e dal narcotraffico?

Quale dei nostri paesi ha avuto un ruolo nella costruzione del sistema economico mondiale e quale tra noi ha programmato la crisi finanziaria mondiale?

La distanza incolmabile tra nord e sud del mondo l’abbiamo creata noi?

Quale dei nostri paesi ha imposto la guerra, l’ignoranza e la povertà all’Africa per poterla derubare delle sue miniere?

Quale dei nostri paesi ha immesso nel mercato dollari senza controvalore per rimediare ai propri deficit e creare una crisi finanziaria globale?

Tra i nostri paesi c’è qualcuno che ha sovraccaricato sugli altri paesi i propri problemi economici succhiando la ricchezza altrui?

Amici miei,

ci sono decine di domande simili ed è chiaro quale sia la risposta.

Con onore annuncio che nessuno dei nostri popoli ha avuto un ruolo in questi brutti fenomeni storici. Noi abbiamo sempre aspirato alla pace, alla tranquillità, al benessere ma ad un benessere che sia accompagnato dall’amicizia e dalla giustizia tra i popoli. La cultura umana, l’amore e l’affetto, sono stati il comune denominatore delle nostre popolazioni.

Ma la nostra domanda principale è questa:

Per quale motivo gli schiavisti, i colonialisti, gli occupatori, e i creatori di tutti i problemi della società umana devono poter mettere sotto pressione i nostri paesi indossando la maschera della democrazia ed usando la scusa dei diritti umani?

Come possiamo fidarci dei falsi difensori della libertà che usando l’ordine unilaterale dominante sul mondo inseguono gli stessi obbiettivi di ieri solo con slogan moderni?

E la domanda ancora più fondamentale e importante è che la reazione passiva alla voglia di questo gruppo di dominare il mondo, renderà forse migliore la situazione globale?

Ma davvero, mi chiedo, cos’hanno fatto i nostri popoli di tanto grave per essere sotto la pressione dei peggiori politici della storia, e sopportare le loro offese e le loro minacce?

Cari colleghi,

la storia lo dimostra ed il mondo lo sa’ che noi ripudiamo la guerra e cerchiamo di sottrarci ad essa.

Ma allora usando le vie politiche e sfruttando il potere dell’unione degli Stati, non si possono correggere questi comportamenti errati?

Non si può creare unità e cooperazione per ottenere il minimo dei diritti dei nostri popoli?

Voi sapete molto bene che la giustizia, la pace e la sicurezza, nel nostro mondo, non le regalano.

Non possiamo allora sviluppare le relazioni e sfruttare le occasioni e le capacità a livello internazionale per salvaguardare i nostri popoli?

Vostre Signorie,

oggi non c’è dubbio che la gestione del mondo ad opera degli schiavisti e dei colonialisti di ieri è la radice di tutti questi problemi.

La mia opinione è che l’Eurasia, grazie alla sua popolazione, al territorio, alla ricchezza, alla forza umana, ed alle capacità politiche, culturali e civili è un insieme senza pari. Credo che aiutandoci a vicenda possiamo correggere l’attuale gestione del mondo.

Credo che con una azione coordinata possiamo cambiare a favore dei popoli, della pace e della giustizia l’andamento attuale del mondo.

Possiamo contenere la forza spudorata del sistema imperiale e ridare al mondo un pò di tranquillità.

Il futuro appartiene a coloro che attendono orizzonti luminosi e che decidono alla grande, con l’amore, la speranza e l’aiuto delle proprie popolazioni.

Amici miei,

la fine del mondo sarà caratterizzata da bellezza e bontà.

Il dominio dell’amore e della giustizia sul mondo è l’unica via di salvezza e l’unico modo per garantire in maniera stabile e duratura il benessere a tutti i popoli.

Il passato, la cultura e la civiltà di cui siamo in possesso ci dicono che oggi noi possiamo fare qualcosa per la realizzazione di questo futuro luminoso.

Il popolo iraniano, stringe la mano a tutti coloro che si sforzano per realizzare questo sogno.

Ringrazio nuovamente tutti voi e sua eccellenza Nur Sultan Nazarbayev e auguro successo anche al presidente ed al governo cinese che ospiterà il prossimo vertice e che ha scelto il bellissimo slogan “Vicinato e Amicizia” per questo.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Due esperti analizzano le proteste di massa in Nord Africa e Medio Oriente

$
0
0

Fonte: “La discussione”, 16 giugno 2011, p. 7

 

La cosiddetta primavera araba, foriera di rivolte contro l’oppressore in Nord Africa e Medio Oriente, c’entra ben poco con i blogger e i social network. In effetti, organizzare un moto di popolo via Internet – sulla falsa riga dei no global in occasione dei G8 – in Paesi dove la diffusione del web è scarsa sarebbe un’impresa davvero ardua. Pertanto, la protesta di massa che ha riempito le piazze di Egitto, Tunisia, Libia, Yemen, Bahrein è stata organizzata dagli islamisti, dalla Fratellanza musulmana. È questa l’analisi fornita da due studiosi, Daniele Scalea e Pietro Longo – redattori della rivista di geopolitica Eurasia e rispettivamente segretario scientifico e ricercatore del neonato (libero e indipendente) Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag) – nel libro “Capire le rivolte arabe: alle origini del fenomeno rivoluzionario” (Avatar-Isag, 164 pagine, 18 euro). Nella quarta di copertina gli autori si chiedono: “Sappiamo davvero perché queste rivolte stiano scoppiando? Conosciamo veramente i nostri vicini arabi, le loro aspirazioni e gl’ideali che li animano? Ci rendiamo conto di quale potrebbe essere il volto del mondo quando l’ondata della rivolta avrà finito d’abbattersi sulla regione?”. “In questo libro – proseguono – si cerca di fare chiarezza, in una veste agile e sintetica, ma discostandosi dalle semplificazioni giornalistiche e dai proclami romantici per concentrarsi invece sulle dinamiche politiche, economiche e strategiche in atto”. Il punto sta proprio qui: su queste rivolte si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, che sono pilotate per fare gli interessi delle lobby del petrolio, per contrastare gli interessi europei nel Mediterraneo, che – al contrario – sono scaturite da un anelito di democrazia. In ogni caso, affermano Scalea (storico) e Longo (arabista), non è stata detta la verità, complice anche un diffuso pressappochismo dei media occidentali. La verità è che gli islamisti hanno presa sulla popolazione, perché propongono uno stato sociale da contrapporre a liberalizzazioni e asservimenti pedissequi alle potenze straniere. La Fratellanza musulmana – nata in Egitto, dove probabilmente cercherà di organizzare un nuovo assetto sociale sul modello della Turchia – attiva nell’istruzione, nella sanità e nel sociale in genere, si sta ramificando in tutto il mondo islamico e recluta sempre più sostenitori proponendosi come unica alternativa possibile per il bene del popolo.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

American Spirit, gli Indiani d’America nel XXI secolo

$
0
0

Che cosa è successo dopo che i riflettori sulle storie di cowboys e pellerossa si sono spenti? Quali sono oggi i rapporti tra le Nazioni Indiane e il governo degli Stati Uniti? Le comunità Native Americane sono rimaste intrappolate nella fitta rete di stereotipi e clichés che ha filtrato all’esterno la percezione della loro realtà. Nelle Riserve si sta consumando un dramma sociale che si è trascinato per tutto il Novecento e ancora oggi contribuisce a mantenere alti i tassi di povertà, violenza e criminalità. Intervista a John Bennett Herrington, membro della Nazione Chickasaw e primo astronauta nativo della Storia.

 

 

Che fine hanno fatto oggi gli Indiani d’America? Dove e come vivono? Qual è il loro rapporto con il governo degli Stati Uniti? Sono riusciti ad amalgamarsi definitivamente con la società statunitense? Far crollare il muro di stereotipi e pregiudizi che la storia e il cinema hanno edificato intorno alla cosiddetta epopea del West è il primo inevitabile passo da compiere per ristabilire la verità storica. L’opinione pubblica italiana, come probabilmente quella del resto del mondo al di fuori degli Stati Uniti, ha conosciuto le vicende degli Indiani d’America per lo più attraverso i filtri dell’industria cinematografica hollywoodiana e dei fumetti di Tex che hanno contribuito ad alimentare il mercato dei falsi miti con cui l’establishment degli Usa aveva deciso di giustificare all’esterno la questione indiana.

La Storia altro non è che la propaganda dei vincitori” diceva la filosofa francese Simon Weil, ma ristabilire la verità storica non serve soltanto al riscatto morale delle popolazioni indigene vittime di usurpazione ed espropri ma anche e soprattutto alla costruzione delle giuste politiche di integrazione. La situazione di instabilità ed emarginazione che i Nativi Americani hanno dovuto affrontare da subito dopo l’arrivo dei primi esploratori britannici in Nord America stride con il melting pot che caratterizza oggi la società statunitense e con il suo ruolo chiave nel processo di globalizzazione.

 

Uno sguardo al passato

 

Nonostante le solite frizioni accademiche, gli studiosi sembrano concordi nel datare intorno al 15.000 a.C. le prime presenze umane in territorio nordamericano. Gruppi appartenenti al tipo fisico dell’Homo Sapiens Sapiens provenienti dall’Eurasia attraversarono l’antica regione della Beringia dando inizio a una storia millenaria complessa e per lo più sconosciuta. L’isolamento fisico dovuto alla separazione della placca eurasiatica da quella nordamericana ha garantito alle popolazioni indigene del Nord America un perfezionamento biologico e culturale che li ha resi geneticamente distinti dagli Eurasiatici, dagli Africani e dagli Australiani.

 

Distribuzione della popolazione nativa per etnia di appartenenza

Distribuzione della popolazione nativa per etnia di appartenenza

Com’è noto la decisione unilaterale dei navigatori rinascimentali di definire genericamente ‘Indiani’ gli indigeni che abitavano il Nuovo Mondo fu dovuta all’erronea convinzione di essere approdati in India. Che si trattasse degli Aztechi che dettero del filo da torcere a Cortés in Messico o dei Powhatan che accolsero i primi inglesi in Virginia non importava. Tutti selvaggi da evangelizzare, indifferentemente. L’ultimo censimento della popolazione nativa realizzato nel 2008 dall’Us Census Bureau ha invece riscontrato la presenza di 565 differenti tribù all’interno dei confini nazionali (Hawaii e Alaska comprese) ufficialmente riconosciute dal governo federale. Sono gruppi etnici organizzati nei modi più disparati, alcuni vivono all’interno delle Riserve altri invece hanno seguito i programmi di urbanizzazione promossi dagli Usa. Queste comunità, caratterizzate da una forte eterogeneità culturale, sono ancora oggi vittime delle definizioni che sono state loro attribuite dai primi coloni europei. Non dobbiamo infatti immaginare che tra gli Haida delle isole Queen Charlotte e gli Irochesi di New York esistano meno differenze di quante ne potremmo riscontrare tra italiani e russi. Per millenni, prima dell’arrivo degli Europei, la maggior parte delle tribù native (termine che in realtà si riferisce a una particolare forma di affiliazione politica ma a cui è stato attribuito un significato esteso che sembrerebbe potersi tradurre con il più generico ‘comunità’) non aveva mai intrecciato relazioni diplomatiche o commerciali con altri popoli indigeni. A distinguere le varie etnie non erano solo le tradizioni culturali ma anche i sistemi di linguaggio, le tecniche di sussistenza e le forme di religiosità. Le Nazioni Native, che sono gli organi di rappresentanza delle singole tribù, oggi riconoscono ufficialmente l’espressione ‘American Indian’ e durante il censimento del 2008 alcuni degli intervistati hanno espresso la preferenza di essere ‘classificati’ come Indiani d’America piuttosto che come Nativi Americani. Addirittura la più grande industria culturale degli Usa, la Smithsonian Institution, ha intitolato ‘National Museum of American Indian’ il più grande e suggestivo museo dedicato alla cultura Nativa.

 

 

Nonostante questa enorme eterogeneità culturale, per converso, il governo federale ha mantenuto un atteggiamento piuttosto omogeneo: il confino dei Nativi all’interno delle Riserve ha, infatti, interessato tutte le tribù senza nessuna eccezione. L’istituzione delle Riserve è stato il primo provvedimento concreto che il governo degli Stati Uniti intraprese per la gestione della questione Indiana. Nella sua formulazione originaria l’Indian Appropriations Act del 1851 stanziava dei fondi per incoraggiare lo spostamento dei Nativi delle regioni occidentali verso alcuni lembi di terreno che il governo federale metteva a loro disposizione. Secondo l’amministrazione di allora l’unico scopo del provvedimento era di proteggere le comunità Native dall’avanzamento dei bianchi nelle terre dell’Ovest alla ricerca dell’oro. Ma le ragioni che spinsero il governo in quella direzione erano in realtà diverse.

Da una parte si rendeva, infatti, necessario limitare l’accesso degli Indiani alle risorse naturali e alle materie prime e dall’altro la distribuzione sparpagliata delle Tribù impediva l’espansione territoriale dei Bianchi, in piena esplosione demografica. L’accettazione silente da parte dei Nativi nascondeva la convinzione che nonostante il sistema delle Riserve non permettesse la reale restaurazione dei loro stili di vita precedenti, avrebbe almeno garantito loro la piena sovranità su un territorio.

 

Approfittando della fame e della povertà che gli Indiani pativano nelle Riserve e della loro poca dimestichezza con le transazioni economiche, un successivo provvedimento legislativo permise alle Tribù, dal 1885 in poi, di vendere ai bianchi eventuali appezzamenti di terra inutilizzati. Ma il vero prodotto di questa strategia fu senza dubbio il Dawes Act del 1887 con il quale il governo intendeva trasformare le comunità tribali in società agricole cristianizzate. La legge prevedeva l’espropriazione della terra delle Riserve, il passaggio a un’economia agricola e la divisione delle terre in lotti individuali in modo da mettere in vendita ciò che sarebbe risultato come surplus. Il risultato fu il seguente: nel 1887 le terre a disposizione dei Nativi corrispondevano a circa 138 milioni di acri, scesi clamorosamente a 55 milioni nel 1934.

 

Il climax fu raggiunto nel 1924 con l’estensione ai Nativi della cittadinanza statunitense, il cui unico effetto fu la legittimazione della loro chiamata alle armi durante la II Guerra Mondiale. Ben 25mila uomini e 500 donne prestarono servizio presso l’esercito degli Stati Uniti. In alcuni casi questo avvenne attraverso un arruolamento volontario interpretato probabilmente come una via d’uscita dalla precarietà della vita nelle Riserve oppure come la ricerca di un appagamento militare in linea con l’apprezzamento del valore bellico diffuso tra molte etnie native. Da un punto di vista geostrategico è interessante ricordare il particolare ruolo che hanno rivestito durante il conflitto mondiale i soldati navajo, impiegati per la trasmissione di messaggi in codice attraverso l’uso della loro lingua nativa, indecifrabile a qualsiasi tipo di intercettazione. Lo shock culturale seguito al rientro nelle Riserve alla fine della Guerra insieme al crescente biculturalismo promosso dal governo federale hanno innescato un processo di emarginazione e insoddisfazione sociale arrivato fino ai giorni nostri.

 

 

Le riserve oggi

 

Le Riserve, a volte descritte come isolotti di povertà in contrasto con il progresso del resto del Paese e in altre come paradisi naturali sfuggiti allo sviluppo incontrollato del XX secolo, presentano un profilo geo economico sostanzialmente statico. La loro presenza è concentrata nelle regioni a ovest del fiume Mississippi. E proprio l’attuale rapporto tra le Riserve e gli Stati dell’Ovest è diventato oggetto di studio di alcuni economisti e giuristi, come Frank Pommersheim, secondo il quale la scarsità di risorse di queste regioni dovrebbe condurre a un dialogo più costruttivo di quello attuale. È ad esempio noto il rapporto di conflittualità che caratterizza le relazioni tra la Riserva di Black Hills e lo Stato che la ospita, il South Dakota. I problemi riguardano in particolare lo sfruttamento delle risorse idriche e la delimitazione dei confini della Riserva stessa. Un altro tema caldo nella difficile gestione dei rapporti Stato-Riserva è legato alla complicata regolamentazione dell’autorità giudiziaria sui non nativi residenti all’interno delle Riserve e delle loro relative proprietà. Oggi non è ancora del tutto chiaro a chi spetti il controllo del rispetto delle leggi in materia di tassazione, caccia e pesca da parte dei non indiani all’interno di una Riserva. L’assenza di una legislazione chiara che regoli i rapporti tra Stati e Riserve è dunque la causa dei frequenti attriti che caratterizzano i rapporti tra questi due Istituti. Il Congresso ha infatti concentrato la propria attenzione legislativa soprattutto sui rapporti tra le Nazioni e il governo federale.

 

La condizione economica dei Nativi che vivono nelle Riserve nordamericane è in molti casi tragicamente drammatica. Negli anni ’80 il reddito pro capite medio dei residenti delle otto più grandi Riserve del South Dakota oscillava tra i 2,166 e i 2,801 dollari, al di sotto della soglia della povertà che interessava una percentuale tra il 28,6 e il 54,9 dei residenti. I tassi di disoccupazione si attestavano invece al 71%. La situazione di oggi è leggermente migliorata ma i segnali continuano a essere negativi. Tra i Nativi residenti nelle Riserve, nel 2000, la disoccupazione riguardava ancora il 40% della popolazione. Una delle strade che alcune tribù hanno scelto di seguire per migliorare la propria condizione economica è quella della legalizzazione del gioco d’azzardo nelle Riserve. Il fenomeno ha raggiunto una tale visibilità e consistenza che negli Stati Uniti il binomio Indiano-casinò (con accezione negativa) è ormai quasi inevitabile. Molte tribù hanno investito nel prolifico settore del gioco d’azzardo con la speranza di trasformare le Riserve in poli di attrazione turistica per avere accesso a un facile guadagno. L’incompatibilità tra il background culturale dei Nativi e la speculazione sul gioco d’azzardo è al centro di accese polemiche. Tra le file degli Indiani più tradizionalisti sono sorti dei veri e propri comitati contrari ai casinò che hanno alimentato alcuni tristi episodi di censura e limitazione della libertà di stampa, dal momento che alcune delle più diffuse testate giornalistiche di matrice nativa sono di proprietà di tribù coinvolte nel business delle slot machines come nel caso di Indian Country Today. Questi dibattiti hanno peggiorato la percezione del resto della popolazione statunitense nei confronti delle comunità native, aggiungendo il gioco d’azzardo ai clichés che ruotano intorno all’immagine degli Indiani. Nel 2006 ha fatto per esempio discutere l’acquisizione della catena internazionale di alberghi, ristoranti e casinò Hard Rock Cafè da parte della Nazione Seminole della Florida.

 

Ma il dramma sociale che colpisce le Riserve non si limita soltanto all’aspetto economico. Il rapporto ‘National Crime Victimization Survey‘ del ministero della Giustizia ha fotografato, per il periodo 1992-2001, tassi di violenza e criminalità in ambito nativo particolarmente preoccupanti. Sono stati registrati 101 episodi di criminalità ogni 1000 abitanti, il doppio rispetto al dato sulla popolazione nera (50 per 1000), due volte e mezzo quello dei bianchi (41 per 1000) e quattro volte e mezzo quello relativo agli asiatici (22 per 1000). In sostanza, tra i Nativi viene commesso un crimine ogni 10 residenti. Dal 1885 con l’approvazione del Major Crimes Act spetta alle autorità federali perseguire quasi tutti i reati gravi commessi all’interno delle Riserve, compresi gli omicidi volontari e colposi, gli stupri, i tentati omicidi, gli incendi dolosi, i furti con scasso e gli incesti. Anche i Consigli Tribali possono giudicare i reati gravi ma l’applicazione delle loro sentenze è limitata. Prima dell’entrata in vigore del Tribal Law and Order Act, firmato dal presidente Obama nel luglio 2010, i tribunali nativi potevano condannare fino a un massimo di 12 mesi di reclusione. Ora possono estendere la pena anche fino a tre anni, a patto che agli imputati indigeni sia garantito un avvocato d’ufficio, cosa che molte Nazioni Indiane non possono permettersi. Per ottenere una giustizia pari a quella che viene garantita al resto della popolazione statunitense, i Nativi sono quindi costretti a rivolgersi alle autorità federali. Secondo il National Congress of American Indian l’88% delle violenze subite dalle donne indiane sono commesse da non nativi e l’attuale sistema giudiziario tribale non permette ai tribunali indiani di perseguirli. Uno studio del Government Accountability Office, il braccio investigativo del Congresso degli Usa, ha rilevato che circa il 50% degli uffici legali statunitensi tende a rifiutare le richieste di procedere contro reati che riguardino le Nazioni Indiane. E ben il 67% di questi rifiuti riguarda proprio reati di violenza e stupro nei confronti di donne native. In un recente editoriale apparso su Indian Country Today, Juana Majel Dixon, vice presidente del National Congress of American Indian e co fondatrice della task force della Casa Bianca contro la violenza sulle donne, ha espresso un sostanziale ottimismo nei confronti delle politiche messe in campo dall’amministrazione Obama per affrontare i temi caldi della questione indiana. Il Tribal Law and Order Act del 2010, infatti, ha stabilito delle linee guida molto precise. Viene auspicata una maggiore autonomia per i tribunali tribali ai quali sarà concesso di procedere nei confronti di non nativi che commettono reati contro i Nativi. Attraverso un canale di dialogo aperto tra il Dipartimento di Giustizia, i governi e le organizzazioni tribali e la Casa Bianca si cercherà anche di intervenire sul fronte della prevenzione. Saranno istituiti dei programmi di educazione e sensibilizzazione sulle tematiche della violenza e dell’abuso di droga e alcol.

 

John Herrington

John Herrington

L’intervista

 

John Herrington, classe 1958, è stato il primo nativo americano a varcare i confini della Terra partecipando ad un’importante missione spaziale della Nasa nel 2002. Membro della Nazione Chickasaw, dopo essersi laureato in matematica applicata alla University of Colorado di Colorado Springs è entrato come pilota nell’Us Navy. La sua esperienza rappresenta un segnale di possibile emancipazione per le giovani generazioni delle Riserve.

 

Come ha vissuto il fatto di essere stato il primo nativo ad avere partecipato a una missione spaziale della Nasa?

 

Come nativo americano mi sono sentito onorato di aver potuto rappresentare la mia famiglia e la mia Tribù in un programma spaziale. Il mio lavoro come astronauta non ha però nulla a che vedere con le mie origini native ma soltanto con la mia formazione di pilota e ingegnere. Ci sono stati astronauti afro americani, asiatici e sud americani e sono sicuro che nessuno di loro ha vissuto la propria esperienza come un segnale di redenzione o di giustificazione da parte del governo degli Stati Uniti. Sono grato che alcune persone mi vedano come un modello e spero che i miei successi incoraggino molti giovani a impegnarsi nello studio della matematica e delle scienze. Mi piacerebbe molto vedere un secondo e magari un terzo astronauta nativo.

 

Le statistiche raccontano una situazione sociale molto drammatica all’interno delle Riserve con tassi di criminalità e violenza molto elevati. Quali crede che siano le possibili cause?

 

Posso dire che mentre alcune comunità native condividono problemi sociali, gli alti tassi di criminalità e violenza non sono limitati all’esperienza delle Riserve e non tutte le Riserve ne sono afflitte. I Nativi hanno sperimentato disagi riguardanti l’occupazione, l’integrazione sociale e conflitti con il potere centrale fin dal 1700. Per molte tribù ci sono stati sensibili miglioramenti nella gestione delle economie tribali e dei servizi sociali ma ce ne sono molte altre che stanno ancora lavorando duramente per ottenerli.

 

Lei potrebbe rappresentare un esempio per le giovani generazioni che vivono all’interno delle Riserve. Crede che oggi sia possibile raggiungere una buona posizione nella società senza dover rinunciare al proprio background culturale?

 

Ritengo che chiunque desideri continuare a vivere rispettando le tradizioni della propria gente, senza riferimenti a una singola razza o alla propria appartenenza etnica, abbia bisogno di un gruppo o di una comunità che lo supporti. L’influenza dei miei nonni e dei miei genitori mi ha incoraggiato a realizzare i miei sogni. La mia tribù, la Nazione Chickasaw, continua tuttora a incoraggiarmi e assistermi nella realizzazione dei nostri comuni obiettivi in materia di educazione, stabilità economica e trasmissione della nostra cultura. Nessuno può fare tutto da solo, magari la gente nativa ne è un po’ più consapevole, del resto rappresentiamo soltanto l’1% della popolazione degli Usa.

 

Crede che il governo federale abbia cambiato atteggiamento ultimamente nei confronti delle politiche di integrazione? A Washington stanno facendo qualcosa per aiutare a risolvere il dramma sociale che colpisce le Riserve?

 

La maggior parte delle politiche di integrazione si è esaurita tra gli anni ’60 e ’70 quando la gente nativa, soprattutto i più giovani, era molto attiva politicamente. C’erano inoltre molti non nativi, tra avvocati e attivisti, che hanno aiutato a diffondere nel mondo la causa indiana. Da quei primi esperimenti di organizzazione, nuove aggregazioni si sono sviluppate e nuovi leaders sono emersi nelle comunità tribali. Nonostante tutti questi sforzi continua a essere molto complicato influenzare le politiche del governo, sostituire le amministrazioni e rimediare allo scarso interesse nei confronti della causa indiana. Ogni persona nel mondo può fare la sua parte, interessandosi alle culture delle altre comunità. Ritengo che le migliori opportunità per i Nativi provengano dalla forte cooperazione tra i governi tribali e le tribù stesse attraverso tutto il Paese. Una delle cose che ho capito grazie alle mie passeggiate spaziali, quando la Terra spuntava davanti ai miei occhi, è quanto ognuno di noi, preso singolarmente, sia insignificante. La nostra forza risiede nella nostra capacità di lavorare insieme per risolvere i problemi dell’umanità.

 

Grazie alla sua carriera professionale, ha avuto la possibilità di viaggiare e confrontare la sua esperienza di vita con quella di altre persone da altre parti del mondo. Com’è percepita la realtà nativa americana al di fuori degli Stati Uniti? I clichés sono ancora più forti della voglia di conoscere?

 

Mi sembra che il mondo manifesti in generale un interesse nei confronti dei Nativi Americani. Ricordiamoci che in fondo, una volta, appartenevamo tutti a qualche tribù. Tutti cacciavamo animali selvaggi, raccoglievamo cibo selvatico, e vivevamo in comunità imparentate tra loro. Oggi è possibile continuare a onorare le tradizioni dei nostri antenati mentre viaggiamo oltre i confini entro i quali loro hanno vissuto. Ogni comunità è vittima di clichè. Sta a ognuno di noi oltrepassare la paura dell’ignoto, di persone e luoghi sconosciuti e imparare a vivere insieme. È estremamente facile dimenticare che viviamo tutti nello stesso pianeta. Dallo spazio, invece, si palesa il contrario. Dobbiamo imparare a vivere armoniosamente gli uni con gli altri.

 

 

 

 

* Matteo Finotto è laureato in Antropologia Culturale e laureando in Geografia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università “Sapienza” di Roma

 

 

 

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

La Turchia sulle tracce dell’Impero Ottomano

$
0
0

Fonte : http://lexpansion.lexpress.fr/economie/la-turquie-sur-les-traces-de-l-empire-ottoman_247660.html?p=2

L’immenso mausoleo di Atatürk è situato sulle vette della capitale turca. Di notte le sue colonne illuminate dominano l’orizzonte di Ankara, conferendo al monumento l’aspetto di un tempio antico.

Questo stravagante mausoleo testimonia il culto del quale continua a beneficiare il generale Mustafa Kemal, detto Atatürk, « il padre dei Turchi », fondatore nel 1923 della prima repubblica laica in un Paese musulmano, nata sulle rovine dell’Impero Ottomano, il quale aveva regnato per cinquecento anni su tre continenti, dalle porte di Vienna all’Oceano Indiano.

L’austero ritratto di Atatürk è sempre affisso in tutti i luoghi pubblici ed in alcuni negozi, compresa la più piccola bancarella del bazar di Istanbul.

Eppure la Turchia si allontana oggi dall’ombra tutrice di Atatürk per inventarsi un nuovo destino, rinnovandosi con il suo passato ottomano.

Si tratta di una profonda rottura rispetto all’epoca kemalista, durante la quale il Paese aveva rigettato la sua eredità imperiale, voltando le spalle ai suoi vicini e privilegiando attivamente un ancoraggio occidentale.

Una rottura incarnata a meraviglia da Ahmet Davutoğlu, il poliglotta ed attivo Ministro degli Affari Esteri, il quale non manca l’occasione di far vibrare la corda ottomana.

Non è un caso che abbia scelto Sarajevo per pronunciare nel 2009 un discorso rimasto celebre. Al cuore di questa città, fondata dagli ottomani nel 1461 e simbolo del martirio dei bosniaci musulmani durante la guerra nell’ex Jugoslavia, Davutoğlu ha chiaramente radicato le ambizioni del suo Paese in una continuità storica. « Come nel XVI secolo, ha detto, mentre gli ottomani erano al centro della politica mondiale, faremo dei Balcani, del Caucaso e del Medio Oriente il nuovo centro politico del mondo con la Turchia!»

Poco importa che la proposta sia smisurata, essa illustra un fenomeno nuovo. Ovunque, dal cinema alla letteratura, il periodo ottomano non cessa di essere rivisitato con una rinnovata curiosità.

Una tendenza accresciuta dal governo dei conservatori religiosi al potere dal 2002 e dalla formazione del quale è l’emanazione l’AKP, il partito di Giustizia e Sviluppo, generato dal movimento islamista.

Il potere esalta la nostalgia ottomana

“La nostalgia ottomana è un marchio di fabbrica dell’AKP” evidenzia Franck Debié, grande conoscitore del Paese e direttore del centro di Geostrategia della Scuola Normale Superiore. “Mira a mostrare che la Turchia può trovare delle radici più profonde del kemalismo, e a riabilitare un periodo nel quale il Paese era al cuore del Mediterraneo, dell’Islam e del Caucaso”.

Questo cambiamento di rotta si accompagna ad un attivismo diplomatico sempre più affermato, al punto di turbare le storiche alleanze del Paese, pilastro della NATO durante la Guerra Fredda, e che oggi aspira all’ingresso nell’Unione Europea.

Che si tratti dell’Iran, di Israele o del Sudan, i punti di frizione si sono moltiplicati negli ultimi anni. Lo Stato turco non nasconde più la sua ambizione di divenire un attore di primo piano in una zona strategica, pronto a giocare una partita importante.

Un cambiamento di rotta verso Oriente?

Dopo aver voltato le spalle all’Oriente durante il periodo kemalista, la Turchia sta ora realizzando un nuovo cambiamento di rotta, allontanandosi dall’Occidente? “Niente affatto”, afferma un diplomatico europeo in sede ad Ankara. “La Turchia sta diventando un Paese disinibito che prende coscienza della sua forza, scopre il suo ambiente e vuole giocare al pari di qualsiasi altro Stato tutte le sue carte per massimizzare i suoi interessi”.

Checché ne sia, questa forza crescente della Turchia non sarebbe stata possibile senza lo spettacolare recupero della sua economia. Si è infatti abbastanza lontani dal 2000 quando lo Stato, sull’orlo della bancarotta ha dovuto essere soccorso – ancora una volta – dal FMI. All’epoca, un avvicinamento all’UE sembrava la sola prospettiva in grado di consentire al Paese di uscire dalla crisi. Oggi il clima è cambiato. Dopo il 2005, il PIL pro capite è aumentato del 50% per raggiungere i 650 euro al mese, le esportazioni sono cresciute del 75% e gli investimenti stranieri, motori del decollo economico, sono esplosi. La crescita si è consolidata (7,5% nel 2010), le finanze pubbliche si sono assestate ed il Paese si è sviluppato ad un ritmo rapido. “Contrariamente ad una immagine della Turchia ancora largamente diffusa, questa non è più il Paese dell’artigianato e del tessile”, riassume un economista. “Essa fabbrica ormai le componenti per Airbus e costruisce la prima automobile elettrica di Renault”.

Questa vitalità economica ha profondamente sconvolto lo status quo. Non solo il Paese è stato conquistato da un ottimismo palpabile, ma questa nuova fiducia stimola anche altre ambizioni.

« La Turchia ha cambiato prospettiva in questi ultimi anni, non si vede più solamente alle porte dell’Unione Europea, ma al centro di una grande regione », rileva Sinan Ulgen, ex diplomatico e presidente del centro di studi economici Edam a Istanbul. Grazie alla sua crescita, la Turchia dispone oggi di leve che le permettono di estendere la sua influenza. E, meno di un secolo dopo la scomparsa dell’Impero Ottomano, fa un ritorno da protagonista nella sua vecchia area.

La svolta turca è pari a 130 milardi

È questo il valore, in dollari, delle esportazioni turche nel 2009, rispetto ai 30 miliardi nel 2009 (90% in prodotti industriali).

48%

È la parte delle esportazioni verso l’Unione Europea nel 2008 che, per la prima volta, non è più la destinazione maggioritaria.

27%

La parte delle esportazioni turche verso il Medio Oriente e l’Africa del Nord è raddoppiata tra il 2000 ed il 2009.

Fonte: Tepav, United Nations Comtrade Database.

 

 

 

Dai cantieri dei Balcani al Kazakistan

La presa delle imprese turche in questa zona è spettacolare. Esse sono presenti su tutti i grossi cantieri, dai Balcani all’Asia Centrale attraverso il Caucaso ed il Vicino Oriente. I giganti del BTP (Sembol, Enka, Renaissance Construction ecc), poco conosciuti in Europa, costruiscono su tutti i fronti. C’è da fare, poiché la maggior parte di queste regioni sono in pieno recupero, la quasi totalità delle nuove strade e tutti i nuovi aeroporti, centri commerciali ed hotel di queste aree sono stati realizzati da Turchi. Gli esempi fioccano: l’aeroporto di Tbilisi, in Georgia, delle autostrade nei Balcani, il porto di Tripoli, in Libia, così come i sontuosi palazzi ufficiali del Kazakistan.

Al di là della prossimità geografica e, in certi Paesi, di una prossimità linguistica, le imprese turche hanno dei formidabili assets. “Sono in grado di fornire degli eccellenti prodotti competitivi ed un buon seguito logico a delle economie impoverite che ambiscono a degli standard di vita europei », constata Franck Debié.

Questa presenza della Turchia nel suo vicinato non è il frutto del caso. Esso ha saputo cogliere al volo i ribaltamenti storici che si sono prodotti alle sue frontiere da 20 anni. Con la sconfitta del comunismo, ha visto aprirsi le porte del Caucaso, dell’Asia Centrale e dei Balcani. Dopo la seconda guerra d’Iraq, « la legittimità americana nella regione è stata messa in discussione », constata Sinan Ulgen. “Due Paesi, la Turchia e l’Iran, approfittano di questo vuoto per espandere la loro influenza”. Ma, grazie alla sua democrazia, dispone di un vantaggio molto importante . “Essa ha costituito un modello nel Medio Oriente, dove i sistemi arabi tradizionali son in declino “, sottolinea un diplomatico europeo.

La diplomazia messa al servizio dell’economia

Questa espansione risponde anche ad una deliberata strategia, quella del « nessun problema » con i Paesi vicini, teorizzata da Ahmet Davutoğlu, il Ministro degli Affari Esteri. L’obiettivo è di normalizzare le relazioni – fino a quel momento molto tese – con gli Stati vicini, per favorirne gli scambi.

“Dal momento che non esistono delle vere economie di mercato nei Paesi limitrofi, bisogna avere dei buoni rapporti con i governi in carica per realizzare dei contratti pubblici”, osserva Güven Sak, il direttore di Tepav, il centro di analisi della potente Camera di Commercio turca.

Il governo turco è anche incoraggiato in questo cammino per la sua base, una nuova classe di imprenditori, le « tigri anatoliche ». Questa borghesia pia e provinciale forma l’ossatura dell’AKP al potere, che si batte duramente con la vecchia élite kemalista, rappresentata dall’esercito, dagli alti funzionari e dai dirigenti dell’industria tradizionale.

Gli imprenditori all’assalto del Paesi vicini

« I padroni dell’Anatolia hanno ancora delle difficoltà ad imporsi in Europa, spingono dunque il governo ad aprir loro i mercati dei Paesi vicini, dove sono molto competitivi, nota Sinan Ulgen. Dunque, questo attribuisce una nuova importanza alla diplomazia turca, che fa ormai dell’espansione economica una priorità.

Il « direttore d’orchestra » di questa espansione è Zafer Caglayan, il Ministro del Commercio estero. Nel suo ufficio, dove l’inevitabile ritratto di Atatürk affianca una maglietta incorniciata del Galatasaray, il leggendario club di calcio di Istanbul, emana sicurezza ed incarna alla perfezione questa rinnovata fierezza del Paese. Velato, il messaggio agli Europei è molto chiaro : “se non ci volete più, ben presto non avremo più bisogno di voi !”

“Per la Turchia, il mondo non si limita all’Unione Europea”, sostiene lui. “A quattro ore di aereo possiamo raggiungere 56 Paesi, rappresentanti un quarto della popolazione mondiale. Il nostro obiettivo è di diventare la decima economia al mondo entro il 2023. Per il resto, sta all’Europa decidere”. A buon intenditor, poche parole !

traduzione di Claudia Mastrapasqua

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Economia e politica portoghese nel contesto europeo

$
0
0

Gli effetti della crisi economica mondiale si stanno riversando sul Portogallo con particolare veemenza, provocando conseguenze gravi sia a livello finanziario sia politico, in un contesto nel quale al rischio di bancarotta, si è aggiunta una crisi politica che ha messo in pericolo la fragile stabilità del Paese più occidentale d’Europa. Dopo le dimissioni del governo socialista a seguito della bocciatura parlamentare dell’ultimo piano di risanamento economico, le elezioni anticipate di giugno hanno trasmesso un primo segnale di speranza: la creazione di un governo che può contare sulla maggioranza in Parlamento. Nel frattempo Lisbona, così come Atene e Dublino in precedenza, ha chiesto l’assistenza finanziaria dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Ora spetta al nuovo governo socialdemocratico, eletto nel corso delle consultazioni anticipate, l’arduo compito di gestire l’attuazione del programma connesso agli aiuti, di dare stabilità al Paese, di riconquistare la fiducia dei mercati internazionali, e soprattutto quella dei cittadini portoghesi.

 

Lo status dell’economia portoghese e gli aiuti

Per comprendere la gravità della situazione è necessario specificare brevemente i dati economici di maggiore rilievo, che riportano l’immagine di un’economia messa in ginocchio dalla difficile congiuntura economica mondiale e da una fragilità intrinseca del sistema, resa evidente dalla scarsa produttività, dall’elevato debito pubblico e dalla mancanza di competitività dell’economia portoghese. E in effetti, la crescita dell’economia lusitana ha conosciuto negli ultimi tre anni un rallentamento vertiginoso, tale da raggiungere quota zero nel primo trimestre del 2011, mentre il debito pubblico registrato nel 2010 era pari all’86% del PIL, dunque nettamente oltre il limite del 60% fissato dall’Unione Europea nel Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Solo il deficit di bilancio, assestatosi lo scorso anno al 7,3% del PIL, è diminuito rispetto ai valori registrati nel 2009 (9,4%), ma rimane tuttavia superiore alle disposizioni del Patto, che prevede un tetto massimo del 3%. Particolarmente allarmante è anche la situazione del mercato del lavoro, con la disoccupazione che si aggira intorno al 10% soprattutto tra i giovani delle regioni a Nord e a Sud del Paese; mentre il declassamento del rating del Portogallo e la perdita di valore dei titoli di Stato documentano i gravi problemi finanziari, in un momento nel quale, oltretutto, i problemi di politica interna rischiano di approfondire ancor più la sfiducia delle istituzioni e dei mercati finanziari nei confronti del Portogallo. Ad aggravare una crisi già così radicata e diffusa nelle diverse maglie del sistema economico, si aggiunge infine il fatto che anche l’economia spagnola versa in condizioni critiche, circostanza preoccupante dal momento che è proprio Madrid il principale partner commerciale di Lisbona e proprio presso le banche spagnole è depositato circa un terzo dei titoli di Stato portoghesi.

L’assistenza finanziaria richiesta dal premier dimissionario dopo la bocciatura della manovra di risanamento presentata in Parlamento, coincide ora con l’ultima possibilità, a lungo rimandata, di risanare i conti pubblici e rilanciare la crescita del Paese. Gli aiuti ammontano complessivamente a 78 miliardi di Euro, una parte, pari a 26 miliardi, finanziata dal FMI, a cui il Portogallo ha chiesto aiuto già due volte in passato, e la restante quota fornita dall’Unione Europea nell’ambito del Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria, istituito nel maggio 2010 al fine di offrire assistenza agli Stati membri che subiscono gravi perturbazioni finanziarie.

Ascesa e declino di Sócrates

José Sócrates, premier uscente, governava il Portogallo da sei anni: una prima legislatura a partire dal 2005, anno in cui il Partito Socialista conquistò il 45% dei voti alle elezioni legislative; un secondo mandato, non concluso, dopo la conferma elettorale nel 2009. Le linee fondamentali dei governi guidati da Sócrates si rifacevano fondamentalmente a obiettivi quali l’equità sociale, la modernizzazione del Paese, la promozione della crescita, la riduzione dei costi della Pubblica Amministrazione, il tutto unito a un orientamento generale molto vicino a quello adottato in Spagna da Zapatero. Tra le altre, le riforme attuate da Sócrates che più rimarranno incise nella storia del Portogallo sono la legalizzazione dell’aborto nel 2007 e dei matrimoni omosessuali nel 2010: segnali di svolta molto netti per un Paese per certi versi molto conservatore e di grande tradizione cattolica.

Il piano che, respinto dal Parlamento, ha provocato le dimissioni dell’ex capo dell’esecutivo, era l’ultima versione del Programma di Stabilità e Crescita (PEC), elaborato per risollevare l’economia nazionale e varato inizialmente nel 2010 per poi essere modificato per tre volte nel corso dell’ultimo anno, fino a giungere alla sua quarta versione (PEC IV). Inizialmente sostenuta dalle forze di opposizione, la manovra era stata accolta dalle contestazioni dei sindacati, sfociate nello sciopero generale del 24 novembre 2010 e in numerose altre azioni di protesta condotte soprattutto dai lavoratori del settore dei trasporti. Con le misure di austerità contenute nel piano anticrisi, il Partito socialista aveva sperato di dimezzare il deficit di bilancio ed evitare il ricorso ai programmi di assistenza finanziaria previsti nel quadro europeo.

Nella crisi politica seguita alla bocciatura del Programma, oltre alla responsabilità dell’esecutivo socialista, in primis per non aver saputo creare consenso intorno al piano di risanamento, va considerata anche la condotta di quelli che fino a poche settimane fa erano i principali partiti di opposizione. Con questi ultimi ci si riferisce in particolare al Partito Socialdemocratico (PSD) e al Centro Democratico e Sociale – Partito Popolare (CDS-PP), che hanno votato contro il programma PEC IV, giudicandolo ingiusto nei confronti dei cittadini, dopo avere appoggiato le precedenti manovre del governo, di cui quest’ultima era solo una rielaborazione. Alcuni critici hanno attribuito tale scelta a un calcolo politico, piuttosto che a reali motivazioni connesse con la linea seguita dal governo, accusando Passos Coelho (leader del PSD) e Portas (leader del PP) di aver fatto leva su un diffuso sentimento di insoddisfazione nei confronti dell’austerity, aggiungendo alla lista delle difficoltà del Paese una crisi politica che si pone come un ulteriore, ennesimo elemento di destabilizzazione.

 

Il governo Passos Coelho

La vittoria dei partiti di destra ha portato alla costituzione di un governo di coalizione tra il PSD, che ha ottenuto il 39% dei voti, e il CDS-PP, che con l’11,7% delle preferenze conquistate, consente al governo di avere la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento monocamerale portoghese. Ed è proprio questo un primo segnale positivo in un momento nel quale più che mai la stabilità, la coesione e la condivisione degli obiettivi fondamentali sono esigenze irrinunciabili in un Paese che ha bisogno di solide intese parlamentari e di stabilire tra le forze politiche un rapporto di collaborazione costruttivo. Nel perseguire questi scopi, Passos Coelho ha già due circostanze favorevoli dalla sua parte: la maggioranza assoluta in Parlamento su cui può contare il governo e la presenza di un Presidente della Repubblica di orientamento socialdemocratico, e dunque politicamente affine all’esecutivo. Si tratta di vantaggi non di poco conto, di cui Sócrates non godeva, e che possono potenzialmente fare la differenza rispetto alla precedente gestione del governo.

Il nuovo premier, mantenendo le promesse fatte durante la campagna elettorale, ha formato un governo a ranghi ridotti: undici ministri contro i sedici della precedente amministrazione, una scelta, almeno sulla carta, coerente e adeguata al momento storico che il Portogallo sta vivendo, nel quale il taglio dei costi della politica rappresenta un segnale importante. Il Consiglio dei Ministri così costituito annovera tra i suoi membri quattro tecnici indipendenti, ai quali sono stati affidati Ministeri di assoluta rilevanza, tra cui il Ministero delle Finanze, che è stato assegnato a Vítor Gaspar, personalità di spicco nel mondo economico per essere stato consigliere della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea (BCE).

 

Il sistema politico portoghese

Con le recenti consultazioni elettorali, i due principali partiti lusitani si danno un’altra volta il cambio: infatti, sin dal 1976, anno dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Portoghese e dell’inizio della Terza Repubblica, il PS e il PSD dominano il panorama politico nazionale, avvicendandosi alla guida del governo e alla Presidenza della Repubblica. Un’alternanza favorita dal metodo elettorale vigente in Portogallo, il quale essendo proporzionale senza soglia di sbarramento assicura sì la rappresentatività, nel senso di una composizione parlamentare quanto più possibile fedele all’orientamento degli elettori. Allo stesso tempo però, il metodo adottato per tramutare i voti in seggi, denominato “metodo d’Hondt”, ha l’effetto di sovra-rappresentare i grandi partiti, conseguenza che può agevolare il delinearsi di un sistema bipolare.

Al di là delle divergenze che oggi le oppongono, le due principali formazioni politiche portoghesi di fatto condividono una comune estrazione socialdemocratica, che del resto il nome di entrambi denota palesemente, nonché un sostrato comune di valori. Fondati tra il 1973 e il 1974, nel periodo immediatamente successivo alla fine dell’Estado Novo, sia il PS sia il PSD si posero inizialmente come partiti di sinistra, per poi successivamente spostarsi su altre posizioni. Il PS ha assunto poi nel corso degli anni un orientamento di sinistra più moderato e centrista, mentre il PSD, per lo più di natura conservatrice e liberale, vide nel consolidamento dello Stato democratico a seguito della Rivoluzione dei Garofani del 25 aprile 1974, il rafforzarsi dei movimenti marxisti e comunisti e assunse un’identità di centro-destra. Le due forze politiche non si scontrano quanto ai fondamenti della politica estera del Paese e vedono entrambe nell’Unione Europea e nello sviluppo delle relazioni con i Paesi lusofoni i punti di riferimento per rafforzare il peso del Portogallo a livello internazionale.

 

Le sfide del nuovo governo

Il nuovo esecutivo giunge al potere in un contesto di austerità, vincolato al rispetto del programma stilato dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal FMI – la cosiddetta troika -, le cui rigide disposizioni il Portogallo è chiamato a rispettare nel corso dei prossimi anni, al fine di garantire il risanamento dell’economia e il regolare rimborso del debito. Il piano mira sostanzialmente a ridurre il deficit fiscale, fino a giungere al 3% del PIL nel 2013, a stimolare la crescita, stabilizzare il sistema finanziario e ridurre il debito pubblico, attraverso riforme strutturali e interventi quali la privatizzazione di alcune imprese a partecipazione statale, prima fra tutte la compagnia aerea nazionale TAP e le società elettriche EDP e REN.

Passos Coelho è quindi di fatto limitato nella propria di libertà di elaborare strategie e politiche proprie, essendo stato eletto in un momento nel quale i cittadini hanno scelto sostanzialmente quale parte dovesse gestire il programma connesso agli aiuti e dunque guidare il Portogallo attraverso un percorso per molti versi prestabilito, se non altro dal punto di vista delle riforme economiche. La sfida che Passos Coelho dovrà affrontare è proprio quella di riuscire a presentare il programma stabilito dalla troika come un sacrificio ineluttabile non soltanto per superare l’emergenza, ma anche e soprattutto, ragionando in un’ottica di lungo periodo, per modificare le strutture economiche in modo da garantire stabilità e crescita, condizioni centrali prima di tutto per il benessere della popolazione. La riuscita del piano e l’impatto che a lungo termine avrà sui cittadini, in termini di fiducia nella politica, dipenderanno dalla bravura che dimostrerà il governo nel presentare le manovre in maniera comprensibile, chiarendone le conseguenze ed evitando di strumentalizzare a fini politici una questione dalla quale dipende il futuro dell’intero Paese. Non solo, la chiarezza su questi punti avrebbe anche l’effetto di smorzare un’eventuale retorica euroscettica, che consiste nell’imputare alle politiche scelte a Bruxelles e all’introduzione dell’Euro l’origine dei problemi del Paese.

Nonostante il netto successo conseguito, Passos Coelho dovrà fare i conti anche con un fenomeno, quello dell’astensionismo elettorale, che ha raggiunto una percentuale pari al 53,48% durante le elezioni presidenziali di febbraio e del 41,09% alle legislative di giugno. In quest’ultimo caso, l’astensionismo ha superato la percentuale di voti ottenuta dal PSD, formazione più votata: una situazione per descrivere la quale alcuni giornali hanno parlato di vittoria del “partito dell’astensione”. Si tratta di dati particolarmente allarmanti, che  attestano l’approfondirsi della distanza tra rappresentanti e rappresentati, quasi a far pensare a una diffusa sfiducia nelle capacità della politica di far fronte ai problemi concreti della popolazione.

 

L’affermazione delle destre in Europa

Il risultato elettorale portoghese va analizzato inoltre anche alla luce di quanto sta avvenendo nella grande maggioranza degli Stati membri dell’Unione Europea, dove si registra una sempre più netta avanzata dei partiti di destra. A ben vedere, infatti, i Paesi ancora guidati da esecutivi di centro sinistra si contano sulle dita di una mano: Spagna, Grecia, Slovenia, Malta e Cipro. Un così netto cambio di rotta è testimoniato da quanto sta avvenendo in Ungheria, dallo scorso anno guidata da un governo di destra che ha dalla sua parte due terzi dei seggi del Parlamento nazionale, e in Finlandia, dove le recenti consultazioni hanno segnato un successo senza precedenti per il partito dei Veri Finlandesi, antieuropeista di estrema destra, che per altro è stato il maggiore ostacolo all’approvazione degli aiuti comunitari al Portogallo. In entrambi i casi, l’elettorato ha punito i governi precedenti, a dimostrazione del fatto che sia nei Paesi dell’Euro debole, come l’Ungheria, sia nei Paesi stabili dal punto di vista finanziario, come la Finlandia, prevale un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle limitazioni stabilite da Bruxelles. Nei primi, il rifiuto si fonda sull’idea secondo la quale le imposizioni che l’Unione Europea pone in materia economica consistano in un’ingerenza nelle questioni nazionali, che impedisce un autonomo sviluppo del Paese e costringe a ricorrere ad aiuti con conseguenti sacrifici per la popolazione. Quanto invece agli Stati virtuosi, il risentimento origina allo stesso modo dagli obblighi derivanti dalla membership comunitaria, in particolare dall’onere di partecipare allo sforzo di salvataggio dei partner in difficoltà. Al tempo della crisi economica, in definitiva, i membri dell’Unione Europea sembrano riscoprire i confini nazionali: chi per difendersi da possibili contagi, chi per tentare di deviare le responsabilità della crisi verso entità esterne. Resta tuttavia il fatto che la riuscita della manovra di risanamento, come dimostra ciò che sta accadendo in Grecia, dove è stata recentemente approvata un’altra tranche di aiuti, non è affatto una certezza. Per scongiurare il rischio di seguire Atene in fondo al baratro, il nuovo governo dovrà dare prova di stabilità e coerenza, una sfida davvero difficile soprattutto dopo che in questi giorni le agenzie di rating hanno declassato ulteriormente il debito del Portogallo. Ciò a cui deve aggrapparsi Lisbona nel momento attuale è soprattutto alla fiducia nelle istituzioni nazionali ed europee e al fatto che, nonostante la crisi politica appena conclusa, i risultati elettorali abbiano  creato le condizioni oggettive per poter rispettare gli impegni presi con Fmi e Unione Europea e per poter dare un nuovo slancio a un Paese che sembra quasi essersi rassegnato al suo destino.

 

* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il mondo arabo e le rivolte: eterogeneità e complessità

$
0
0

La sera di venerdì 8 luglio si è tenuta presso il Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma” la conferenza “Capire le rivolte arabe”, organizzata dall’IsAG nell’ambito del Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia. Sono intervenuti come relatori Daniele Scalea (segretario scientifico IsAG e co-autore del libro Capire le rivolte arabe), Enrico Galoppini (redattore di “Eurasia”) e Giovanni Andriolo (ricercatore IsAG). Si riporta di seguito la trascrizione del suo intervento.

 

 

Capire le rivolte arabe è un proposito ambizioso.

Ed è un proposito così ambizioso poiché per capire le rivolte arabe è necessario un requisito fondamentale: l’aver capito i paesi arabi.

Le rivolte arabe infatti esplodono nel 2011, ma in realtà esse nascono nei decenni precedenti, nascono nei decenni precedenti i fenomeni e le dinamiche che danno origine oggi alle rivolte arabe.

 

Da quando le rivolte arabe sono scoppiate, i mezzi di informazione hanno viaggiato su due binari: alcuni, hanno enfatizzato il carattere eroico e quasi romanzesco delle rivolte, dipingendole come movimenti popolari spontanei che attraverso l’autorganizzazione e l’uso di mezzi tecnologici (twitter?) hanno rovesciato o stanno rovesciando i regimi tirannici che da decenni li opprimono.

 

Un altro filone battuto dalla maggior parte dei canali d’informazione ha seguito la linea della diffusione di notizie esagerate di proposito, dai caratteri grotteschi, in modo tale da favorire una clima di opinione pubblica favorevole alle rivolte e ai rovesciamenti di regime. (Un esempio, la notizia della pratica, da parte degli ufficiali di Gheddafi, di distribuire alle truppe dosi di Viagra, in modo tale da risvegliare gli istinti dei combattenti e spingerli ad effettuare stupri punitivi sulla popolazione femminile degli insorti.) Su questo punto, anche giornali arabi molto noti hanno le proprie responsabilità.

 

Alla luce di tutto questo, occorre fare ordine sulla questione, e soprattutto, occorre approcciare l’analisi delle rivolte arabe attraverso due filtri importantissimi.

Per cominciare, occorre avere ben chiara in mente la nozione di paesi arabi, prima di parlare delle rivolte arabe.

I paesi arabi infatti non sono, come spesso i mezzi d’informazione o alcuni analisti sottintendono, un blocco unico, omogeneo. Al contrario, l’insieme dei paesi arabi costituisce un micro (macro) cosmo dai confini e dalle caratteristiche inquadrabili e definibili a fatica.

Convenzionalmente, i paesi arabi sono ventidue, distesi su due continenti e su almeno tre regioni del mondo. Sono accomunati da una lingua quasi comune, da maggioranza di popolazione aderente ad un credo religioso, l’Islam, ma con fortissimi frazionamenti al suo interno, e dalla condivisione, almeno teorica o di facciata, di alcune cause comuni (la più importante, la liberazione della Palestina). Di contro, le differenze sono molte, e sono di tipo storico, culturale, climatico e ambientale, economico, talvolta linguistico.

Le società dei paesi arabi sono diverse da paese a paese, hanno composizioni differenti, sono plasmate su esperienze storiche e culturali in alcuni casi profondamente differenti.

Ne deriva che le rivolte che in diversi di questi paesi stanno infuriando o si sono già consumate nell’anno in corso, possono essere difficilmente accomunate, se non raggruppandole per semplicità di analisi con un aggettivo, “arabe”, che diventa quasi arbitrario come arbitraria può essere considerata la definizione di “paesi arabi”. Per questo motivo, risulta difficile, impossibile, capire adeguatamente le rivolte arabe senza scinderle l’una dall’altra, senza premettere che si tratta di un insieme di rivolte, ognuna nata da caratteristiche intrinseche del paese in cui si svolge, ognuna comprensibile soltanto se inquadrata nel suo proprio contesto politico sociale.

 

Ad un secondo livello di lettura, poi, capire i paesi arabi, e conseguentemente le rivolte arabe, presuppone di avere ben chiaro anche quale sia l’intreccio di legami, influssi, dinamiche che operano all’interno dei singoli paesi ancor prima che le rivolte nascano, e come questi influenzino non soltanto la vita di ogni singolo paese arabo, ma anche il nascere (o il non nascere) di eventi critici come una rivolta. Bisogna inoltre aver chiaro per ogni paese come le dinamiche interne si svolgano in accordo con l’insieme di interessi e ambizioni che forze esterne fanno valere e pesare nel contesto dei singoli stati. Bisogna aver chiaro, in ultima analisi, quale ruolo ogni singolo paese arabo giochi all’interno dello scacchiere geopolitico globale, e di come il nascere o il non nascere di una rivolta, così come le caratteristiche che la plasmano, possa mutare questo ruolo e, di conseguenza, l’intero sistema del micro (o macro) cosmo arabo.

In questo senso, può essere utile individuare dei gruppi di paesi a seconda del posizionamento che ognuno di essi ha assunto a livello internazionale, nei confronti delle maggiori potenze globali, in primis gli Stati Uniti e il sistema NATO da questi diretto. L’allineamento o il disallineamento con un tale sistema finora dominante caratterizza e plasma indubbiamente il ruolo che i singoli paesi detengono a livello globale, la loro fama internazionale, i loro governanti, i loro interscambi commerciali e la loro economia.

La divisione del mondo in paesi buoni e cattivi, i cosiddetti “Stati canaglia”, espressione coniata negli Stati Uniti, e in uso da più di trent’anni, indica in ultima analisi questo: una suddivisione arbitraria dei paesi arabi (e non solo) a seconda del loro grado di allineamento con le potenze euroatlantiche dominanti.

Pertanto, le rivolte arabe assumono motivazioni e significati totalmente diversi a seconda dell’allineamento dei singoli paesi precedente alla rivolta stessa.

 

Così in Tunisia, il regime di Ben Ali, voluto e sostenuto dal sistema euroatlantico (e in cui l’Italia ha giocato a suo tempo un ruolo fondamentale), non è riuscito a resistere al malcontento della popolazione, sempre più spossata da disoccupazione e crescenti costi dei generi alimentari di prima necessità.

 

In Egitto la situazione è più complessa. L’Egitto era una pedina fondamentale nel sistema di sicurezza edificato dagli Stati Uniti nell’area. Il Rais Mubarak, definito spesso il “Faraone”, metafora che rende bene l’idea sia degli smisurati poteri che egli esercitava sia della vetustà del suo governo, era tra i buoni, e dai buoni riceveva miliardi di dollari l’anno per mantenere in piedi l’apparato militare che dal 1952, anno della rivolta dei Generali Liberi, detiene di fatto il potere nel paese. Le proteste in Egitto, da qualunque fonte abbiano tratto origine, hanno suggerito all’entourage militare, aiutato nella decisione dall’Amministrazione Obama, la soluzione di una transizione pacifica: cambiare poco affinché non cambi nulla. In attesa delle elezioni presidenziali di settembre, il potere è ancora saldamente in mano ai generali, gli stessi che avevano favorito, trent’anni fa, la salita al potere del “Faraone” e gli stessi che, probabilmente, agevoleranno l’elezione di un nuovo “buono” con cui perpetrare il proprio potere.

 

In Libia invece la situazione è totalmente diversa. La rivolta infatti non ha carattere popolare (o non pretende di dimostrarsi tale) come in Egitto e Tunisia, ma si innesta nelle dinamiche locali di un frazionamento regionale non ancora superato. Le due facce della Libia, la Tripolitania e la Cirenaica, non sono mai state, malgrado gli sforzi del governo libico, un solo paese. Su questo solco, su questa spaccatura si insinua la radice del caso libico. Inoltre, la presenza pluridecennale sulla scena di un personaggio controverso come Muammar Gheddafi non può che complicare un simile scenario. Gheddafi, da sempre, è tra i cattivi. Gheddafi è un personaggio scomodo, sia per le potenze euroatlantiche sia per i paesi arabi loro alleati. Indipendente da tutti, smanioso di potenza, forte degli introiti garantiti dalle risorse naturali di cui il suo paese è ricco, Gheddafi resta al potere per quarant’anni senza mai piegarsi al volere euroatlantico. Nessuna occasione migliore, per il sistema dei buoni, di un’ondata di rivolte su tutta la regione per fomentare i movimenti indipendentisti della Cirenaica alla ribellione. E quando questi si dovessero trovare in difficoltà di fronte alla strenua resistenza del Colonnello, ecco in soccorso il sistema, con campagne mediatiche, minacce e tanto di risoluzioni ONU a giustificare internazionalmente un intervento diretto. Perché, a ben vedere, l’intervento diretto si è avuto contro una persona, Gheddafi, che non poteva essere convinto dal sistema a mollare, come Mubarak e Ben Ali, e la cui successione, soprattutto, non poteva essere stabilita dal sistema stesso, come in Egitto e in Tunisia.

In Libia, quindi, stiamo assistendo al tentativo, da parte del sistema dei buoni, di risolvere un problema, Gheddafi, che da quarant’anni incombe e di ottenere contemporaneamente il controllo su altre riserve di gas e petrolio, quelle libiche appunto.

Non bisogna certo dimenticare che i sistemi di Gheddafi sono stati negli ultimi decenni tutt’altro che democratici e non sanguinari, ma, a quanto sembra, nemmeno Ben Ali o Mubarak risultano esenti da simili critiche.

 

E per restare in tema, passando al versante asiatico del mondo arabo, si arriva alla Penisola Araba. L’Arabia Saudita costituisce il secondo pilastro su cui si basa (o si basava) il sistema di sicurezza euroatlantico nel Vicino Oriente. Dei buoni, insomma, i cui metodi di governo erano secondi, in quando a chiusura e repressione, soltanto all’Afghanistan dei Talebani. Con la caduta di questi, i Saud ottengono la prima posizione in questa speciale classifica. Eppure, il sistema euroatlantico non sembra particolarmente scandalizzato da questo notevole primato. Anche perché l’Arabia Saudita, oltre ad essere un buono, è pure un buono ricco, di risorse, di investimenti nei posti giusti, e di liquidità. Anche in Arabia Saudita, a marzo, ci sono state delle proteste. Questa volta, però, non di tipo popolare né regionalistico, bensì di tipo settario. La comunità sciita, minoranza all’interno del paese, ha effettuato alcune dimostrazioni in diverse città. La copertura mediatica internazionale degli eventi non è stata così capillare come avvenuto altrove, e le rivolte sembrano per il momento placate dagli apparati di sicurezza dei Saud. Non contenti di questi successi, i Saud hanno poi deciso di intervenire nel vicino Bahrein, un altro paese governato da buoni, dove la rivolta degli sciiti, qui maggioranza nel paese, contro il governo sunnita sembrava prendere piede. L’intervento dell’esercito saudita in Bahrein ha evitato il collasso della famiglia regnante, ma non ha certamente sopito gli animi. Eppure, la diffusione di filmati, che ritraevano le forze governative dal Bahrein abbattere a colpi d’arma da fuoco manifestanti disarmati, non ha generato lo stesso moto di sdegno, nel mondo euro atlantico, né lo stesso intervento delle Nazioni Unite.

 

L’Arabia Saudita, poi, si è impegnata nella composizione, tramite il GCC, della crisi yemenita. Qui, elementi di malcontento interno, così come le spinte al rovesciamento del governo di Saleh da parte delle diverse tribù che compongono questo frastagliato paese, hanno portato al dilagare di proteste e rivolte. Anche in questo caso, siamo sicuri che l’Arabia Saudita, divenuta una specie di NATO della Penisola Araba, saprà conservare lo status quo, anche qualora ci dovesse essere una transizione dei poteri.

 

Infine la Siria della famiglia Assad, un altro dei cattivi, uno “Stato canaglia” tra i più preoccupanti per il sistema euroatlantico. Con una duplice aggravante: da un lato la sua vicinanza politica con l’Iran, la “canaglia” per eccellenza, dall’altro lo stato di conflitto, nonché la vicinanza geografica, con lo Stato di Israele, e la presenza di ferite ancora aperte dai tempi della Guerra dei Sei Giorni (Alture del Golan). La Siria è un altro paese scomodo, al pari della Libia, ma, per sua fortuna, privo di preziose risorse naturali. L’origine delle rivolte in Siria ha aspetti non del tutto chiari, e le notizie che arrivano da Damasco sono tutt’altro che attendibili. Certamente, il regime degli Assad conta all’interno del paese diversi nemici, ma anche all’esterno le forze ostili sono capaci e determinate. Un quadro della situazione può essere solamente desunto dall’insieme di notizie e testimonianze che fuoriescono quotidianamente, e la verità può essere attualmente soltanto abbozzata attraverso la confutazione, quando le contraddizioni siano palesi, delle notizie diffuse dai mezzi d’informazione.

 

Si sono verificate rivolte e manifestazioni di diversa entità, nel 2011, anche in Marocco, Algeria, Oman, Kuwait, Giordania, Libano e Iraq, senza gravi conseguenze, ognuna con la sua storia e le sue motivazioni.

 

Nel frattempo, il Sudan sta affrontando una gravissima e sanguinosa crisi, che ha portato il paese alla definitiva divisione; in Somalia continua lo sforzo di stabilizzazione di un governo fragile contro i tentativi di colpo di stato da parte di gruppi di ispirazione religiosa fondamentalista; la Costa d’Avorio ha visto in questi mesi l’atroce recrudescenza di un conflitto civile che dura da dieci anni.

Eppure di questo non si è parlato più di tanto: i paesi africani non hanno ancora un ruolo importante sullo scacchiere globale.

 

E’ molto più facile invece parlare di rivolte arabe, esaltarne i caratteri eroici e libertari contro un sistema repressivo, molto spesso favorito dal sistema euroatlantico, che in Europa ci vantiamo di aver superato. Senza considerare, purtroppo, che i paesi arabi, come le rivolte arabe, non vanno giudicate con parametri europei. Piuttosto, le rivolte arabe vanno analizzate alla luce dei diversi contesti in cui i paesi arabi interessati si muovono. Le rivolte arabe, di qualunque natura esse siano, non cambieranno il mondo arabo, non lo renderanno più democratico o, peggio, più simile all’Europa: non potrebbero e non sarebbe giusto. Le rivolte arabe tuttavia, daranno uno scossone al sistema che fino al 2010 vigeva nell’area, e solo quando il fumo dei mortai si sarà abbassato, il mondo potrà vedere quali paesi hanno cambiato il proprio ruolo, o il proprio allineamento, e quali invece saranno rimasti nella posizione precedente.

 

Capire le rivolte arabe, si diceva, è un proposito ambizioso.

I nostri due autori, con questo libro, ci danno un grande aiuto in questo senso.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Neo-cons USA e neo-revisionisti israeliani a confronto: prossima uscita

$
0
0
Uscirà nella seconda metà di luglio, dai tipi delle Edizioni all’Insegna del Veltro (edizione curata da Stefano Bonilauri), il libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. L’autore, Francesco Brunello Zanitti, è ricercatore dell’area Asia Meridionale presso l’IsAG e frequente contributore alla rivista dell’Istituto, “Eurasia”. Il volume esce col marchio dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed una prefazione a firma del segretario scientifico dello stesso, Daniele Scalea.

L’opera consta di 160 pagine e costerà 18 euro.

Per ordinare il libro, scrivere a:
Edizioni all’insegna del Veltro
insegnadelveltro1@tin.it

Riportiamo di seguito la quarta di copertina e l’indice:

A seguito della vittoria di Bush nel 2000 e soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre i neocons statunitensi hanno influenzato considerevolmente la politica estera della Casa Bianca: la scelta di una politica estera unilateralista, dominata dal concetto di guerra preventiva agli Stati considerati fiancheggiatori del terrorismo; lo scetticismo nei confronti delle istituzioni internazionali e verso alcuni alleati europei; l’invasione dell’Iraq, collegata all’ideale di esportazione della democrazia e alla difesa della supremazia statunitense a livello globale, sono tutti elementi che testimoniano l’ascendenza neoconservatrice sull’amministrazione repubblicana.

Allo stesso tempo l’ultimo decennio della politica israeliana è stato caratterizzato dal rafforzamento della destra, in particolare del Likud, partito erede del neorevisionismo, movimento politicio basato su alcuni concetti già espressi dal sionismo revisionista e dal suo leader, Vladimir Jabotinsky: l’idea di un’inevitabile lotta tra ebrei ed arabi, il diritto per il popolo ebraico dell’intera Eretz Israel per la costruzione dello Stato d’Israele e il primato della forza sulla diplomazia nelle relazioni internazionali.

Gli Stati Uniti e Israele hanno avuto fin dal 1948 una speciale alleanza, ritemprata dalla recente egemonia neoconservatrice negli Stati Uniti. Si può parlare in questo contesto di un singolare legame tra i neocons e gli esponenti del Likud? Il neoconservatorismo e il neorevisionismo, pur essendo due movimenti nati in ambienti politici e geografici lontani e molto differenti, hanno elementi in comune nelle loro ideologie sottostanti? L’analisi del pensiero dei due movimenti politici e le azioni intraprese in politica estera dagli appartenenti a queste correnti una volta raggiunto il potere nei rispettivi paesi possono offrire un’ideale chiave di lettura per comprendere le similitudini e le differenze tra neoconservatorismo statunitense e neorevisionismo israeliano.

INDICE

PREFAZIONE (di Daniele Scalea)

INTRODUZIONE

Capitolo 1
I NEOCONS STATUNITENSI E I NEOREVISIONISTI ISRAELIANI
1.1 I caratteri generali della questione
1.2 Le caratteristiche principali del neoconservatorismo statunitense
1.3 Le caratteristiche principali del neorevisionismo israeliano
1.4 La speciale alleanza tra Stati Uniti e Israele

Capitolo 2
I NEOCONSERVATORI AMERICANI
2.1 Alle origini del neoconservatorismo
2.1.1 Alcove 1
2.1.2 Il Vital Center
2.1.3 Leo Strauss
2.2“Commentary”, “The Public Interest” e l’importanza dei media
2.3 I neoconservatori e la politica estera americana
2.3.1 L’eccezionalismo americano
2.3.2 I neocons, il Terzo Mondo, le organizzazioni internazionali e l’Europa
2.3.3 I neocons e Israele

Capitolo 3
I NEOREVISIONISTI ISRAELIANI

3.1 Alle origini del neorevisionismo: Vladimir Jabotinsky
3.2 Le caratteristiche del neorevisionismo
3.2.1 L’utilizzo di simboli e miti neorevisionisti
3.2.2 Israele e il resto del mondo. Il ruolo dell’“Olocausto”
3.2.3 Il rapporto con il mondo arabo
3.2.4 Il neorevisionismo tra anni ’90 e 2000. Benjamin Netanyahu
Capitolo 4
NEOCONSERVATORISMO E NEOREVISIONISMO A CONFRONTO
4.1 Le origini
4.2 Il nazionalismo
4.3 Il conservatorismo e il radicalismo
4.4 Tendenze espansionistiche e militariste
4.5 L’eccezionalismo
4.6 L’unilateralismo in politica estera e la guerra preventiva
4.7 Homo homini lupus, pessimismo e ottimismo
4.8 «The road to Jerusalem leads through Baghdad»

Capitolo 5
CONCLUSIONI

FONTI E BIBLIOGRAFIA

Ricordiamo ai lettori che sono già disponibili in libreria altre pubblicazioni dell’IsAG: il volume di Pietro Longo e Daniele Scalea Capire le rivolte arabe e l’ultimo numero della rivista “Eurasia”, La cerniera mediterraneo-centrasiatica.
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 61 articles
Browse latest View live