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Channel: Jorge Gonzalez Izquierdo – Pagina 176 – eurasia-rivista.org
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Libia e diritto internazionale visti dalla Russia

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Dal nostro inviato a Mosca:


Il 6 luglio a Mosca, presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università Statale Russa del Commercio e dell’Economia (RSUTE), ha avuto luogo la tavola rotonda dal titolo: “LIBIA, LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE E I PROBLEMI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE”. La discussione ha visto la partecipazione di diplomatici russi e stranieri, esperti di diritto internazionale delle principali università del paese, politologi, giornalisti, membri di organizzazioni e movimenti sociali. La tavola rotonda è stata organizzata dal Comitato russo di Solidarietà con i popoli della Libia e della Siria. Alla tavola rotonda hanno partecipato più di 12 accademici e ricercatori in discipline giuridiche, nonché esperti di diritto penale internazionale:

1) Sergey Baburin – Ph. D., Professore, scienziato benemerito della Federazione Russa, rettore RSUTE;

2) Alexei Vashchenko – corrispondente del quotidiano «Завтра» (Domani);

3) Svetlana Glotova – Dottore di Ricerca, membro del comitato direttivo dell’Associazione Russa di Diritto Internazionale e membro dell’Associazione Mondiale di Diritto Internazionale, membro della commissione di Diritto Internazionale dell’Associazione degli Avvocati Russi, membro del Comitato scientifico consultivo del Ministro degli Affari Esteri della Russia, docente del Dipartimento di Diritto Internazionale dell’Università Statale di Mosca Lomonosov;

4) Yurij Golik – Ph. D., professore, professore di diritto e procedura penale RSUTE;

5) Muftah Darbash – Vice Ambasciatore della Libia nella Federazione Russa;

6) Vladimir Jatiev – Ph. D., professore, capo del dipartimento di diritto e procedura penale RSUTE;

7) Nikolai Zhdanov – Ph. D., professore di diritto internazionale dell’Università russa di amicizia fra i popoli.

8 ) Sergey Kapitonov – Dottore in Legge, professore, capo del Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto e dello Stato dell’Università ELSU;

9) Gennadij Melkov – Ph.D., professore, giurista benemerito della Federazione Russa, professore di diritto costituzionale RSUTE;

10) Vladimir Ovchinskii – Ph.D., membro del Consiglio della politica estera e della difesa (CFDP), generale di polizia (in pensione);

11) Alexei Osavelyuk – Ph. D., professore, Vice capo Dipartimento di Diritto costituzionale RSUTE;

12) Oleg Peresypkin – Ambasciatore dell’Unione Sovietica in Libia 1984-1986;

13) Oleg Saulyak – Ph. D., docente, Preside della Facoltà di Giurisprudenza RSUTE;

14) Oleg Fomin – Membro della Società Ortodossa Imperiale di Palestina, arabista;

15) Taras Shamba – Ph. D., professore, giurista benemerito della Federazione Russa, capo del Dipartimento di avvocatura, notariato, processo civile e arbitrato RSUTE;

16) Yaroslav Kozheurov – Dottore di Ricerca in Diritto;

17) Dmitry Malev – Ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Federazione Russa in Guinea e Sierra Leone;

18) Alexei Antonenko – politologo;

19) Nikolai Sologubovsky – giornalista, scrittore;

20) Vladimir Orlov – Vice Presidente dell’ONG “Veche”

Alla tavola rotonda sono state poste le seguenti domande:

Chi trae vantaggio dall’eliminazione fisica di Muammar Gheddafi?

Chi è il violatore della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che impone la no-fly zone sulla Libia?

Sono legittimi gli attacchi missilistici e i bombardamenti sulla Libia, non violano la Carta delle Nazioni Unite e le leggi internazionali?

A seguito della discussione delle domande poste, i partecipanti hanno unanimemente convenuto che il Tribunale penale internazionale per la sua emissione di un mandato d’arresto per Muammar Gheddafi ha violato il diritto internazionale, e la NATO nell’utilizzo della risoluzione 1973 è andata al di là non solo del campo giuridico, ma anche oltre la ragione, e la sua azione è priva di fondamento giuridico.

I partecipanti alla tavola rotonda hanno quindi deciso di fare appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedendo la cessazione immediata dei bombardamenti da parte delle forze della NATO sulle città libiche, in quanto sono contrari alla risoluzione 1973. Inoltre, i partecipanti alla tavola rotonda hanno convenuto di trasmettere un ricorso alla Corte penale internazionale, che richiede il ritiro del mandato di cattura per Muammar Gheddafi.

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“Social and Economic Effects of Modernization”

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Report as per results of session on strategic scenarios “Social and Economic Effects of Modernization: from “smart” devices to “smart” social networking services as a subject of “smart” investments”

(Moscow, 28 February – 2 March, 2011)

 

The report is made on the initiative of the Member of the Committee on Banks and Banking of the Russian Union of Industrialists and Entrepreneurs, Chairman of the Board of the Millennium Bank, Mikhail Baydakov, under the scientific leadership of the Director of the Schiffers Institute for Advanced Research, Prof. Yury Gromyko and of the Economist and Member of the Scientific Committee  of the Italian journal “La Finanza”, Paolo Raimondi.

Please download the entire Report in pdf format:

session on strategic scenarios – to smart investments-1

session on strategic scenarios – to smart investments-1

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La difesa dei diritti umani e la lotta contro l’imperialismo sono inscindibili

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Fonte: http://www.nodo50.org/ceprid/spip.php?article1201

Domenica 10 luglio 2011

I. L’aggressione imperialista contro la Libia, capeggiata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, ha posto una volta di più in primo piano il disorientamento imperante in buona parte della sinistra e nei “progressisti” di diverse sfumature, il cui pensiero e le cui opinioni appaiono modellati dall’egemonia ideologico-culturale del capitalismo, abbigliato per l’occasione con le vesti del derechouhumanismo.

Qualcosa di simile accadde durante le aggressioni contro Iraq e Yugoslavia: non bisognava condannarle, perché farlo implicava appoggiare dittatori come Saddam Hussein e Milosevich.

Non ci riferiamo qui all’attitudine dei socialdemocratici che appoggiano l’aggressione dal Governo (nei fatti, la Spagna di Zapatero e la Grecia di Papandreu, dissanguata dal capitale finanziario transnazionale) o dall’opposizione, come nel caso del Partito Socialista francese.

Alcuni gruppi e partiti che si autoproclamano di sinistra e anticapitalisti, hanno salutato la “primavera araba” in Libia e in seguito hanno precisato la loro analisi, denunciando l’aggressione delle grandi potenze, scatenata con il pretesto di “proteggere i civili”.

Altri gruppi e persone, anch’essi che si autoproclamano di sinistra – molto pochi, a questo punto della situazione, perché l’aggressione è diventata assai impopolare persino negli stati aggressori – mantengono il loro appoggio ai ribelli, però giustificano anche, in  nome dei diritti umani del popolo libico, l’aggressione imperialista.

E accettano come verità irrefutabile la versione dei fatti trasmessa dai grandi monopoli di dis-informazione.

Gheddafi sarebbe un pazzo scatenato che ha saccheggiato il suo paese e ha i miliardi depositati nelle banche straniere. Quando le sue truppe si trovavano alle porte di Bengasi il Consiglio di Sicurezza decise di creare una zona di esclusione aerea sopra la Libia e immediatamente l’aviazione francese iniziò a bombardare le truppe di Gheddafi stazionate di fronte a Bengasi, evitando così il genocidio della popolazione, che pareva imminente secondo le informazioni delle grandi potenze e dei monopoli mediatici al loro servizio, sempre degni di fede per questi derechohumanistas con i paraocchi.

I ribelli, da parte loro, lotterebbero per i diritti umani, assetati di libertà e di democrazia, e non sarebbero un conglomerato eteroclito che include al suo interno anche ex alti dirigenti del regime, responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.

II. La Libia è un paese quasi esclusivamente desertico, a eccezione di una stretta frangia di litorale (1770 km di costa), dove si trovano i principali nuclei di popolazione del paese.

Ha 6.500.000 di abitanti (un milione alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte nomadi) e una superficie di 1.750.000 km quadrati. Attualmente Tripoli ha circa due milioni di abitanti, Bengasi un milione, Misurata 480.000 e Tobruk 200.000.

Possiede giacimenti petroliferi di qualità altissima, che costituiscono la sua quasi esclusiva fonte di risorse e si suppone che disponga di grandi riserve non sfruttate e ancora non scoperte.

L’altra sua ricchezza naturale è l’acqua. Sotto una superficie secca e quasi desertica, in quasi tutto il territorio esiste una gigantesca riserva di acqua fossile potabile stimata in 150.000 km cubi, chiamata Acquifero della Nubia, che copre circa due milioni di km quadrati e si estende in parte del Chad, dell’Egitto, della Libia e del Sudan.

Nel 1983 in Libia si cominciò un progetto di irrigazione, conosciuto come Grande Fiume Artificiale, per utilizzare queste riserve sotterranee al fine di portare alle città costiere più di cinque milioni di metri cubi di acqua al giorno. A tutt’oggi il Grande Fiume Artificiale somministra acqua potabile e per l’irrigazione al 70 per cento della popolazione, portandola dalla falda acquifera del sud alle aree costiere del nord, alle città di Tripoli, Tobruk, Sirte, Bengasi e altre. Con un costo stimato di 30.000 milioni di dollari, finanziato con la vendita del petrolio, la rete del Grande Fiume Artificiale, con quasi 5000 km di tubazioni da più di 1300 pozzi scavati fino a 500 metri di profondità e stazioni di pompaggio nel deserto del Sahara, ha come obiettivo anche quello di aumentare la superficie di terre coltivabili. Inoltre, l’acqua è molto economica: 35 centesimi di dollaro al metro cubo.

Impossessarsi di questa enorme riserva di acqua potabile è nella mira anche delle potenze imperialiste, mandatarie delle imprese transnazionali come la ex Lyonnaise des Eaux (Gruppo Suez) e altre, che hanno il controllo delle risorse idriche mondiali.

Se il proposito di Gheddafi fosse di annientare la popolazione di Bengasi, avrebbe a disposizione il semplice mezzo di tagliare la somministrazione di acqua alla città.

Dal 1990 il Programma delle Nazione Unite per lo Sviluppo (UNDP) pubblica un Indice di sviluppo umano, dove stabilisce una classifica dei paesi del mondo in base a vari parametri che rappresentano la qualità della vita delle persone, tra i quali l’istruzione, la speranza di vita, la salute e il reddito, e li differenzia per genere. Non tiene in conto i cosiddetti indici di libertà umana. L’indice 2010 include 169 paesi e la Libia occupa il posto 53 con un indice 75 (in ascesa rispetto agli anni precedenti), di una scala che ha un massimo teorico di 100. La Norvegia occupa il primo posto con indice 93. La Libia ha l’indice più alto dell’Africa, seguita a breve distanza da Algeria, Marocco e Tunisia, e in America Latina la superano solo Il Cile (78,3), l’Argentina (77,5) e l’Uruguay (76,5), che occupano rispettivamente i posti 45, 46 e 52. Messico e Cuba sono più o meno allo stesso posto della Libia.

Quindi la Libia è considerata un paese di medio sviluppo, raggiunto grazie a un buon utilizzo della sua rendita petrolifera, ma con un grave deficit in materia di diritti civili e politici, stimati in modo oggettivo, e soprattutto secondo i criteri di valutazione dei paesi occidentali “civili”.

III. Dopo la riconciliazione di Gheddafi con l’Occidente, le gravi carenze della Libia in materia di diritti civili e politici non hanno disturbato le grandi potenze, che hanno ricevuto in pompa magna il leader libico, ansiose di realizzare buoni affari, soprattutto l’ottenimento di concessioni petrolifere, la vendita di armi e da parte della Francia perfino l’offerta di costruire una centrale nucleare.

Si sono in questo modo concretizzate varie concessioni petrolifere e importanti vendite di armamenti.

Solo nel 2009 Gran Bretagna, Francia e Italia hanno venduto armi alla Libia per 25, 30 e 111 milioni di euro rispettivamente. Quello stesso anno, anche Malta figura nella lista dei venditori, per 80 milioni di euro. Malta non ha nessuna industria di armi ed è evidentemente solo un paese di transito. Da parte sua, la Francia ha tentato di vendere alla Libia gli aerei Rafale che fabbrica Dassault. Gli stessi che ora utilizzano per bombardarla.

Però Gheddafi è un individuo imprevedibile, che a quanto sembra cominciò a ideare la revisione delle concessioni petrolifere e a promuovere l’idea di autonomia finanziaria dell’Africa di fronte alle valute delle grandi potenze.

Inoltre, le riserve petrolifere e acquifere della Libia sono un bottino che stimola l’appetito degli aggressori. A questo bisogna sommare i depositi dello stato libico nelle banche straniere e le 144 tonnellate d’oro (circa quattromilaseicento milioni di euro), che sarebbero depositate nelle banche libiche.

Si capisce perché la “primavera” libica (preparata- sostengono alcuni- dai servizi segreti francesi, e probabilmente in parte spontanea) fosse una buona occasione per stabilire in Libia un governo “democratico”, cioè totalmente sottomesso alla voracità occidentale.

La ribellione non si è estesa a macchia d’olio, come speravano i portabandiera dei diritti umani, e si è dovuta utilizzare la foglia di fico di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per intervenire militarmente a favore dei ribelli.

Intervento che può culminare in un’invasione terrestre, se non si fa sentire di più l’impopolarità nei paesi aggressori, non si accentua il dissenso in seno alla NATO e gli aggressori riescono a riunire le forze sufficienti. Questo darà per risultato instaurare il caos in Libia per molti anni, come in Iraq e Afghanistan, e convertire tutta la zona in una polveriera a causa della disseminazione degli armamenti, come ha ammonito qualche giorno fa il Presidente del Niger, Mahamadou Issoufou.

IV. Più di quattro mesi di bombardamenti aerei (e ora anche navali) ininterrotti: si tratta di una forma di terrorismo internazionale di Stato destinato a minare la morale del nemico, specialmente della popolazione civile.

L’Italia lo mise in atto in Etiopia nel 1935-36, Il Giappone in Cina nel 1937-39, la Germania e l’Italia durante la guerra civile spagnola (Madrid 1936, Guernica 1937), la Germania nazista e gli alleati durante la Seconda Guerra  Mondiale (Varsavia, Rotterdam, Londra, Dresda, Hiroshima, Nagasaki, ecc.), gli Stati Uniti abbondantemente in Vietnam, Panama, Iraq, Yugoslavia, Afghanistan, e di nuovo in Iraq.

Centinaia di migliaia di lavoratori stranieri (di altri paesi di Africa e Asia) hanno dovuto fuggire dalla Libia, rimanendo senza lavoro e senza stipendio, con il quale contribuivano al mantenimento delle loro famiglie nei loro paesi di origine. L’economia della Libia è quasi paralizzata e le vittime civili dei “bombardamenti umanitari” sono numerose da entrambe le parti.

La costruzione a Tripoli di un nuovo quartiere di 25000 abitazioni è rimasta bloccata come conseguenza dell’aggressione.

Impossibile conciliare questi fatti con il preteso derechohumanismo di quelli che vogliono liberare la Libia da Gheddafi tramite internet o dai caffè di Parigi o di qualunque altra capitale Europea. Forse rimpiangono di non avere a disposizione anche loro i droni telecomandati degli yankee, per bombardare Gheddafi dal living di casa.

L’imminente genocidio della popolazione di Bengasi con il quale si è preteso giustificare l’inizio dei bombardamenti (di fatto l’aviazione anglofrancese si è convertita nella forza aerea di una delle parti di una guerra civile) è un argomento simile a quello delle “armi di distruzione di massa” in possesso di Saddam Hussein per giustificare l’aggressione all’Iraq.

Per la Royal Air Force non è la prima volta. Nell’ottobre del 1944, quando i tedeschi si stavano ritirando dalla Grecia, i comunisti greci e i loro alleati (l’ELAS), la forza più importante della resistenza contro l’occupazione nazista, controllavano Atene e potevano formare un governo. Il primo ministro inglese Churchill ordinò allora lo sbarco delle truppe britanniche in Grecia e il bombardamento da parte della RAF dei quartieri popolari di Atene per impedire l’accesso dei comunisti al potere. Il risultato fu che in Grecia si ristabilì la monarchia e si formò un governo di centro-destra.

Nel luglio 1956 il presidente dell’Egitto Gamal Abdel Nasser nazionalizzò il Canale di Suez. Nell’ottobre dello stesso anno Gran Bretagna (governo conservatore di Anthony Eden), Francia (governo socialista di Guy Mollet) e Israele (governo di Ben Gurion) aggredirono militarmente l’Egitto con il proposito di impadronirsi del Canale di Suez, ma, senza l’appoggio degli Stati Uniti, fallirono nell’intento.

V. I fatti sono così: ostinati.

Ma i teorici di sinistra con il ruolo di sostenitori dei diritti umani delle grandi potenze sostengono senza batter ciglio che i fatti confermano il loro punto di vista. E che quelli che chiudono gli occhi davanti alla realtà sono gli altri (sinistrorsi anacronistici “incollati ad antichi cliché”): “Bisogna andare contro la realtà, in altro modo la realtà si trasforma in un incubo molesto e la cosa migliore è opporvisi” (Abel Samir, “Siamo sicuri che sia il greggio, quello che ha spinto Obama alla guerra contro Gheddafi?”, Argenpress, 23 giugno).

Samir, in un articolo pubblicato il 13 giugno, già aveva scritto quello che segue:

“E questi di sinistra si sono costituiti in una pleiade di individui, partiti, organizzazioni, giornali, pagine internet, intossicati di slogan, cliché e dichiarazioni ampollose contro l’Impero nordamericano e i suoi alleati, senza considerare che questo impero in alcuni casi lotta in difesa dei diritti umani, anche se non lo fa per credo, ma per altri interessi nascosti, come il dominio geopolitico di una zona del mondo o la difesa della sua stessa posizione predominante in una zona nella quale ha dominato per molti decenni”.

Per giungere a questa conclusione, Samir, oltre a decretare, come fa, l’invalidità dell’analisi leninista dell’imperialismo nel secolo XXI, dovrebbe dimostrare che l’impero in alcuni casi agisce in difesa dei diritti umani. Non lo può fare. Di contro è facile dimostrare che l’imperialismo, yankee o altro, agisce SEMPRE contro i diritti umani, sia complottando contro e/o rovesciando governi progressisti o appoggiando dittature quando convenga ai suoi interessi.

Loro stessi lo dichiarano: gli Stati Uniti non hanno amici, hanno interessi.

Alcuni esempi di interventi imperialisti:

Intervento della CIA nel colpo di stato del 1953 in Iran contro il governo Mossadegh, che aveva nazionalizzato il petrolio; invasione del Guatemala nel 1954 tramite una forza armata promossa e finanziata dalla CIA e dalla United Fruit; invasione di Santo Domingo nel 1965; colpo di stato in Cile nel 1973; invasione di Granada nel 1983; invasione di Panama nel 1989; espulsione di Aristide da Haiti nel 2004 mediante azione congiunta di Stati Uniti e Francia. In Africa, nel momento della decolonizzazione sorsero leader come Patrice Lumumba, Kwame Nkrumah, Amilcar Cabral e Jomo Kenyatta, che lottarono per una via indipendente per i loro popoli, contraria agli interessi delle ex colonizzatrici e delle loro grandi imprese. Tutti loro furono rovesciati o assassinati, come Lumumba e Cabral, e rimpiazzati con dirigenti dittatoriali, corrotti e fedeli alle grandi potenze neocolonialiste.

L’imperialismo aggressore e depredatore è la fase attuale che caratterizza il capitalismo nel suo insieme (quello che alcuni chiamano mondializzazione) e i suoi usufruttuari lo difendono con le unghie e i denti senza nessuna preoccupazione per i diritti umani dei loro propri popoli e meno ancora i diritti umani dei popoli altri.

Samir, nel suo articolo del 23 giugno, si dedica a “sviscerare la struttura economica e politica nella quale si sviluppano gli Usa”… “Allora, la classe dominante dell’Impero è raggruppata fondamentalmente in due partiti politici: i democratici e i repubblicani. Questi ultimi rappresentano gli interessi più reazionari di questo grande paese. Tra le sue file spiccano i proprietari delle grandi imprese petrolifere nordamericane, i rappresentanti politici di questi capitalisti o consorzi economici convertiti in imprese multinazionali o transnazionali. Specialmente le grandi imprese petrolifere. Quindi, se impadronirsi delle ricchezze petrolifere della Libia fosse stata la motivazione fondamentale per la partecipazione degli Usa nella guerra civile libica, al lato dei ribelli, questo partito repubblicano sarebbe, come è logico, il più interessato che gli USA si inserissero nella guerra e la vincessero il più tardi possibile”…

Sicuramente il ruolo del capitale industriale si è considerevolmente rinforzato durante l’amministrazione Bush, soprattutto quello delle industrie petrolifere e di armamenti. Nel governo Bush erano ampiamente rappresentate entrambe le industrie.

Con Obama il capitale finanziario ha recuperato il primato, ma ciò non autorizza a dire che ci siano interessi o strategie contradditori tra repubblicani e democratici, come non c’è contraddizione di fondo tra capitale industriale e capitale finanziario, poiché la fusione tra i due caratterizza la tappa imperialista del capitalismo e il sorgere delle imprese transnazionali, come già segnalato da Hilferding nel 1910 (Il capitale finanziario) e Lenin nel 1916 (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo). Non bisogna dimenticare che con Obama il bilancio preventivo per le spese militari degli Stati Uniti ha continuato e continua ad aumentare.

Per cui non ha alcun senso sostenere che i repubblicani sono i falchi reazionari rappresentanti politici dei capitalisti e dei consorzi transnazionali e  i democratici le colombe che difendono i diritti umani. Vale la pena rammentare che l’invasione di Bahia de Cochinos avvenne durante il governo democratico di Kennedy e che Clinton, anch’egli democratico, governava questo “grande paese” – come lo chiama Samir – quando gli USA promossero il colpo di Stato ad Haiti nel 1991, fece scatenare la guerra contro la Yugoslavia (Madeleine Albright, rappresentante di Clinton, fu quella che mandò a monte i negoziati di Rambouillet tra la Yugoslavia e l’Unione Europea) e iniziò la Guerra del Golfo.

Con il democratico Obama è cambiata la forma ma non la sostanza di questo tipo di operazioni. Il golpe in Honduras del 2009 fu criticato dal governo statunitense, che appoggiò le decisioni degli organismi internazionali (ONU e OEA) esigendo il ritorno del presidente in carica. Ma è incontestabile che senza il lasciapassare degli Stati Uniti il golpe non avrebbe avuto luogo, visto che detto paese ha il controllo delle forze armate dell’Honduras attraverso la sua base militare di Soto Cano, essenziale per la geopolitica sottoregionale degli stati uniti: da lì forniva appoggio logistico ai contras del Nicaragua durante il governo sandinista.

Samir sostiene che nel Congresso l’opposizione a continuare la guerra contro la Libia di una maggioranza di repubblicani e democratici si deve al fatto che considerano che non ci siano interessi statunitensi in gioco (solo propositi umanitari). Samir dimentica due cose: le prima è che negli Usa sono prossime le elezioni  e i congressisti dovranno presentarsi davanti agli elettori e rendere conto anche di questa guerra, impopolare nonostante la scarsa partecipazione yankee. La seconda è che gli Usa rischiano l’insolvenza, con un debito di 15 miliardi di dollari.

È per questo che Obama, dopo aver lanciato un centinaio di missili Tomahawk sopra la Libia, a quanto pare con uranio impoverito, ha lasciato il carico principale dell’aggressione al suo alleato Cameron e al suo cagnolino Sarkozy “l’americano”, che ha fatto il calcolo sbagliato pensando che un blitzkrieg contro Gheddafi lo avrebbe fatto risalire nei sondaggi di opinione in vista delle prossime elezioni.

Samir scrive: “Quindi non sono mancati quelli che si chiedevano perché gli USA e la NATO non intervenissero anche in Arabia Saudita, Yemen, Siria e altrove. Di certo, gli USA e la NATO, sommersi fino al collo nel fango di Iraq e Afghanistan, non sono in condizione di infilarsi in altri pantani, a parte quello dell’intervento in Libia”.

Samir in parte ha ragione: gli imperialisti sono – dio sia lodato – impantanati.

Ma se non intervengono in Bahrein, Yemen e Arabia Saudita è perché si tratta di dittature amiche. In Bahrein è stanziata la Quinta Flotta della Marina yankee. L’Arabia Saudita, amica di sempre degli Stati Uniti, in marzo ha inviato truppe nel Bahrein per porre fine alle manifestazioni della maggioranza sciita.

Samir afferma: “I confronti armati tra le potenze che enunciò Lenin non avvengono più e si cerca l’integrazione degli stati in grandi entità di paesi in relazione tra loro secondo il modello della loro economia e, ovviamente, politicamente uniti, come la UE. Agli USA oggi non interessa altro che mantenere la supremazia, con l’interesse di dominare la politica mondiale e mantenere così, inoltre, sviluppo e progresso tecnologici ed economici di punta. Il confronto armato in questo modo sarebbe fuori luogo. Così oggi possiamo vedere che nel mondo ci sono quattro grandi formazioni di stati che si fanno largo nell’area politica ed economica, che non solo si rispettano le une con le altre, ma partecipano in qualche modo ai vantaggi del sistema capitalista”.

Le grandi potenze sarebbero in competizione rispettosa tra loro per mantenere supremazia e “sviluppo e progresso tecnologici ed economici di punta”, partecipando tutte “nei vantaggi del sistema capitalista”. Indubbiamente il capitalismo ha i suoi vantaggi… per quelli che si trovano sulla cuspide della piramide sociale.

Samir non si è reso conto che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono morte 30 milioni di persone nei conflitti armati, o in guerre colonialiste intraprese direttamente dalle grandi potenze o in conflitti interimperialisti per il controllo delle risorse naturali dei paesi poveri, sotto forma di guerre locali. Secondo la rivista medica inglese The Lancet di gennaio 2006, solo nella Repubblica Democratica del Congo dieci anni di guerra civile sono costati la vita a milioni di persone (tra 3,5 e 4,5). Il Congo ha la disgrazia di possedere un sottosuolo enormemente ricco di materiali strategici. In Rwanda i genocidi di 800.000 persone furono consentiti dall’esercito francese in ritirata (Operazione Turquoise). Un gruppo di ricercatori dell’Università Brown ha appena pubblicato una valutazione del costo finanziario e umano delle guerre intraprese dagli Stati Uniti dal 2001 in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Calcolano il numero di morti in azioni militari in 225.000, i dispersi in 8 milioni e il costo finanziario in qualcosa di più di due miliardi di dollari (vedere http://costsofwar.org/).

Samir aggiunge: “Quelli che considerano che la guerra oggi è il modo per fare buoni affari non sanno di cosa stanno parlando”.

Contrariamente a quello che afferma Samir, la guerra è un’opzione ricorrente del capitale monopolistico nei momenti di crisi economica, perché è un modo di riattivare la produzione industriale senza necessità di riattivare la domanda (lo Stato compra la produzione degli armamenti con i soldi dei contribuenti senza consultarli e la popolazione del nemico scelto “consuma”, certo involontariamente, le bombe che riceve sulla testa).  Dopo la guerra, i grandi monopoli dell’industria civile si accaparrano l’affare della ricostruzione e degli “aiuti umanitari”.

Nel suo libro Capitalismo, Socialismo e Democrazia (1942) [1], l’economista Joseph Schumpeter affermava che “il capitalismo per sua natura è una forma o metodo di cambio economico”, di sostituzione del vecchio per il nuovo, che denominava “distruzione creativa” (nuovi consumatori, nuovi beni, nuovi metodi di produzione o trasporto, nuovi mercati, nuove forme di organizzazione industriale, ecc.). La guerra sarebbe la forma più drastica di “distruzione creativa” in seno al capitalismo.

Inoltre, l’industria degli armamenti è sempre interessata a collocare la sua produzione, a provare i suoi prodotti in condizioni reali (Guerra del Golfo, Yugoslavia, Afghanistan, aggressione all’Iraq, a Gaza, alla Libia…) e ad ampliare il suo mercato, per esempio tramite l’incorporazione di nuovi paesi alla NATO: il presidente del “comitato americano per l’ampliamento della NATO” è il vicepresidente della Lockeed Martin, impresa che occupa il secondo posto tra i più grandi fabbricanti e venditori di armamenti mondiali.

Secondo la relazione annuale dell’anno 2010 dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2009 le spese militari nel mondo sono salite a un miliardo e 531 mila milioni di dollari, il 6% in più del 2008 e il 49 per cento in più del 2000. La spesa militare del 2009 ha rappresentato il 2,7% del PIL mondiale dello stesso anno.

Sempre secondo il SIPRI nel 2008 si sono vendute armi nel mondo per 384 mila milioni di dollari, di cui 352 mila milioni, cioè il 90%, furono vendite effettuate da imprese degli Stati Uniti (230 mila milioni) e dall’Europa Occidentale (122 mila milioni).

VI. Samir sottoscrive la teoria – contraria alla realtà dei fatti – della denazionalizzazione del potere economico transnazionale e dell’emergenza di una sola classe dirigente mondializzata: “È molto difficile oggi sapere con esattezza a chi appartengano le grandi imprese multinazionali, essendo tante volte, come indica la loro stessa denominazione, capitali di molti paesi o di capitalisti di differenti nazioni e non sempre di un solo paese. Imprese che sembrano inglesi hanno capitali tedeschi, italiani, turchi, cinesi, giapponesi ecc… E così succede nella maggior parte delle imprese transnazionali. Il capitale oggi è più internazionale che mai. Perciò si dividono interessi di tutti i tipi, perché l’unica cosa che muove questi capitalisti è fare buoni affari e guadagnare il massimo possibile”.

Le classi dirigenti su scala mondiale convergono con l’obiettivo strategico principale di preservare il sistema, e allo stesso tempo competono ferocemente tra loro.

Le relazioni tra le società transnazionali sono una combinazione di guerra implacabile per il controllo dei mercati o di zone di influenza, di assorbimenti o acquisizioni forzate o consentite, di fusioni o accordi e dell’intento perenne ma mai conseguito di stabilire regole private e volontarie di gioco leale tra loro. Perché la vera legge suprema delle relazioni tra le società transnazionali è “divorare o essere divorate”.

Le società transnazionali sono versatili e poliedriche e cambiano nome frequentemente. Questo succede sia come risultato di fusioni o, anche se continuano a essere le stesse società, come un modo di tentare di farsi dimenticare dal pubblico dopo aver acquisito una cattiva reputazione a causa dell’intervento in crimini finanziari o economici o in gravi violazioni ai diritti umani.

Ma le fusioni, le delocalizzazioni e i cambi di nome non significano che le società transnazionali si siano convertite in enti virtuali e irreprensibili. Di sicuro la loro immagine si è via via depersonalizzata dal momento in cui si sono costituite come società anonime, rispetto all’epoca in cui un monopolio si identificava con un nome proprio (Rockfeller, Mellon, ecc.). Ma non c’è dubbio che anche oggi abbiano componenti reali e tangibili: capitale, sede legale, dirigenti responsabili, ecc.

Prova aggiuntiva alla loro esistenza, determinabile in coordinate spazio-temporali, è la loro presente influenza in organismi e meeting internazionali, con il ruolo determinante che esercitano negli orientamenti degli organismi finanziari internazionali e nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, attraverso i rappresentanti delle grandi potenze e delle loro equipe di giuristi ed economisti, e nell’influenza che esercitano negli orientamenti economico-finanziari e nella politica generale di quasi tutti gli stati del pianeta. La loro esistenza reale e tangibile si manifesta anche nel monopolio quasi totale che detengono sui mezzi di comunicazione di massa.

Possono avere sede in uno o più paesi: nella sede reale dell’entità madre, in quello degli impianti principali delle attività e/o nel paese dove la società è stata registrata, ma si può sempre identificare una nazionalità della società transnazionale, nel senso che c’è uno stato che la sostiene e difende i suoi interessi di fronte ad altri stati con mezzi politici, militari o altri.

E difende anche i suoi interessi negli organismi intergovernativi come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Il dato complementare che conferma la BASE NAZIONALE DELLE IMPRESE TRANSNAZIONALI: la crisi finanziaria ha mostrato come i governi delle grandi potenze abbiano destinato centinaia di migliaia di milioni di dollari per SALVARE LE PROPRIE BANCHE E NON QUELLE DEI VICINI.

Lenin continua ad avere, nei suoi punti essenziali, attualità assoluta.

Scriveva nel 1916: “Il capitalismo si è trasformato in un sistema universale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della stragrande maggioranza della popolazione del pianeta da parte di un pugno di paesi “avanzati”. Questo “bottino” viene ripartito tra due o tre potenze rapaci di potere mondiale, armate fino ai denti (Stati Uniti, Inghilterra, Giappone) che, per dividerlo, trascinano tutto il mondo alla guerra”. (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Prologo all’edizione francese e tedesca del luglio 1920, par. II).

VII. Conclusione

La violazione dei diritti umani delle persone e dei popoli è inerente al capitalismo nella sua fase imperialista. Come regola generale, le dittature sono sostenute e persino promosse dalle potenze imperialiste. E quando i popoli vogliono intraprendere il cammino della loro liberazione nazionale e sociale, le grandi potenze, che vedono minacciati i loro interessi e quelli dei capitali monopolistici che rappresentano, li aggrediscono con tutti i mezzi. Sono i fatti a provarlo. Di modo che l’asse fondamentale della solidarietà internazionale con i popoli che lottano per i loro diritti e libertà deve essere la lotta contro il capitalismo imperialista, nemico comune di tutta l’umanità. Rifiutando la trappola ideologica dell’imperialismo “umanitario”.

(Traduzione di Sara Ceratto)

[1] Etas, 2001

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Gian Pio Mattogno, La non-umanità dei gojim nel Talmud e nella letteratura rabbinica

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Gian Pio Mattogno

La non-umanità dei gojim nel Talmud e nella letteratura rabbinica

Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, pp. 152, € 20,00

ISBN 978-88-904736-8-5

 

Eventi geopolitici quali l’emigrazione sionista nel territorio palestinese e la proclamazione dello Judenstaat preconizzato da Theodor Herzl sono stati sorretti, sul piano ideologico, da dottrine di diversa matrice. È noto che nel progetto sionista confluirono sia un nazionalismo ebraico contiguo alla dottrina colonialista del „fardello dell’uomo bianco“, sia quell’orientamento „socialista“ che suscitò inizialmente il sostegno politico, diplomatico e militare delle „democrazie popolari“ e non ha mai cessato di attirare le simpatie di molti marxisti europei.

Tuttavia la natura più profonda del sionismo affonda le sue radici nella cultura religiosa del giudaismo, quella cultura che per secoli è stata custodita dalla letteratura rabbinica (Talmud, Tosefta, Midrash, Zohar). Tale letteratura contiene una quantità di prescrizioni ostili ai gojim (i non ebrei), descritti come idolatri spregevoli, dissoluti, empi ed impuri, che è lecito e doveroso discriminare, ingannare, derubare e perfino asservire e annientare.

La ricerca di Gian Pio Mattogno, che prende in esame tutti i passi contenenti prescrizioni di questo genere, è suddivisa in tre capitoli (I. La non umanità dei gojim nel Talmud e nel Midrash; II. La non umanità dei gojim nello Zohar e nei commentari rabbinici; III. La donna non ebrea nella letteratura rabbinica) e tre Excursus (I. I fondamenti teologici del giudaismo e il non ebreo; II. Il significato di “uomo” (adam) nella Bibbia e nella letteratura rabbinica; III. La dottrina ebraica dell’anima e il non ebreo).

Di Gian Pio Mattogno le Edizioni all’insegna del Veltro hanno pubblicato anche L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica.

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Finale di partita

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Fonte: “CPE

 

E’ ormai palese a chiunque che il ciclo storico che si era iniziato con la liquidazione della classe dirigente che aveva retto le sorti del Paese negli anni del bipolarismo si sta per compiere definitivamente. Svenduta gran parte del patrimonio pubblico, consegnato il Paese a banche e ad istituti finanziari italiani e stranieri (se negli anni Novanta il debito pubblico italiano era ancora nelle mani delle famiglie italiane, nel 2010 queste ultime ne possedevano solo il 9,58%, contro il 44,27% allocato all’estero) (1), americanizzato il sistema educativo, penalizzato in ogni modo lo Stato sociale a vantaggio dello Stato assistenziale (cioè a vantaggio di lobbies e gruppi d’interesse vari), integrati del tutto, una volta abolita la leva, i vertici delle Forze armate nella Nato, persa la sovranità monetaria con la creazione di Eurolandia, senza alcuna reale contropartita, se non quella di contribuire al fallimento politico dell’Unione europea, non rimane che privatizzare le ultime imprese strategiche della Nazione: Eni, Enel e Finmeccanica, in particolare. Il “sonnifero” Berlusconi, sotto questo profilo, ha funzionato benissimo: gli italiani dopo essersi divisi tra sudditi di destra e sudditi di sinistra, potranno finalmente essere “unicamente” sudditi del mercato, mettendo da parte vecchi e nuovi rancori, ed essere tutti debitori, tranne i “soliti noti”, ossia quelli – per capirsi – che sono soliti trarre profitto dall’Italia dell’otto settembre permanente. 

Tuttavia, è innegabile che la cosiddetta “casta” offra la corda a chi la vuole impiccare, così come la offriva il ceto politico di tangentopoli: vere erano le tangenti, veri sono i privilegi ignominiosi della “casta”; ma è vero pure che la terapia proposta dai “soliti noti” è peggio del male (reale) che si dovrebbe curare. Vent’anni di privatizzazioni hanno portato il Paese sull’orlo del baratro e chi avesse tempo potrebbe leggere l’incredibile quantità di sciocchezze pubblicate, negli anni Ottanta e Novanta, dalla grande stampa italiana (in specie dal Corsera e da Repubblica) sui “vizi pubblici” e le “virtù private”, nonché sulle magnifiche e progressive sorti del “libero mercato” angloamericano, per rendersi conto a che cosa in realtà mirano coloro che pretendono di voler risanare il Paese. Allora però a complicare le cose scese in campo il Cavaliere, naturalmente allo scopo di difendere i propri interessi, ma ostacolando così il completo smantellamento del nostro apparato strategico, non fosse altro perché troppo impegnato a prendersi cura del proprio patrimonio e della propria persona, dentro e fuori le aule dei tribunali, tanto che non sembrava infondata l’ipotesi che certi “ambienti” sia cattolici sia del “vecchio” ceto politico, democristiano e socialista, potessero usare il Cavaliere come uno scudo, ovvero (anche) allo scopo di impedire la totale subordinazione dell’Italia ad interessi stranieri. Una ipotesi confermata, secondo alcuni, dagli accordi con Putin e con Gheddafi, in quanto segno di una politica estera tale da poter implementare programmi strategici di medio-lungo periodo, smarcando (benché, per così dire, soltanto “in potenza”) l’Italia da una “alleanza” che, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, si è ridotta, inevitabilmente, ad essere mero rapporto tra Paese dominante e Paese dominato. Nel giro però di pochissimo tempo tutto è finito: con la ignobile partecipazione all’intervento militare della Nato contro la Libia, è evidente che il Cavaliere ormai pensa soltanto a salvarsi tirando i remi in barca (di lusso), dopo aver letteralmente “sputtanato” il Bel Paese, avendo un comportamento con il “gentil sesso” che si addice più ad un fenomeno da baraccone che non ad un Presidente del Consiglio. Danno gravissimo però non tanto questo, al di là di facili battute, quanto piuttosto la perdita “secca” di peso sulla scena internazionale, che, sommata alla politica antinazionale dell’oligarchia atlantista (gli Amato, i Prodi, i Ciampi, i Draghi, i Montezemolo, i De Benedetti, i D’Alema, i Fini, i Casini e tutti gli altri “nostri bravi ragazzi” in doppiopetto a stelle e strisce) ed alla incapacità dei governi del Cavaliere di porre un argine all’indebitamento del Paese, dopo l’entrata in Eurolandia, fa sì che la Penisola sia alla mercé di potenze e potentati economici stranieri e delle loro quinte colonne. Nessuna manovra, come anche gli italiani più sprovveduti o meno attenti hanno intuito, potrà infatti evitare che la speculazione e le agenzie di rating facciano lievitare i tassi d’interesse sul debito, costringendo il Paese a fare ciò che i “mercati” hanno deciso che il Paese debba fare (”perfetta logica” della democrazia di mercato). E il fatto che vi possano essere anche più “soggetti” in competizione tra di loro per spartirsi la torta, o meglio quel che rimane (ma non è poco) della torta tricolore, non solo non smentisce che il “libero mercato” pare una libera volpe (quasi sempre “English speaking”) in un libero pollaio, ma rende ancora più difficile trovare una soluzione, ammesso che vi sia qualcuno che la voglia trovare.

 

D’altra parte, non è solo questione di finanza ed economia, ma di lacune strutturali che, da un lato, non hanno permesso di fare le riforme necessarie (a partire da quella della pubblica amministrazione, vera e propria vacca da mungere per alcuni gruppi sociali, assai ben organizzati, che, come si era già compreso negli anni Settanta, contribuiscono in modo determinante allo “sfascio” del Welfare) per rendere “produttiva” la spesa pubblica e migliorare la qualità dei servizi fondamentali (sanità, scuola etc.), onde rafforzare la coesione sociale e l’etica pubblica, notoriamente quasi del tutto assente nel nostro Paese. Dall’altro, hanno reso pressoché impossibile promuovere un sapere strategico per superare la incapacitante dicotomia sapere umanistico versus sapere tecnico-scientifico, di modo che si è rinunciato a formare le nuove generazioni secondo un punto di vista “nazionalpopolare”, ovvero tenendo conto sia della esigenza di modernizzare il sistema sociale, sia di quella di tutelare e valorizzare il più possibile la propria identità culturale e la propria storia, anche per non perdere l’effettiva capacità di “orientarsi” in un mondo in rapida e continua trasformazione, e non essere costretti a mutare direzione ogni volta che muta il vento della storia, con l’ingrato compito di fare i rappresentanti degli interessi dei padroni d’oltreoceano e/o dei loro “bravi”, come se fossero anche i propri (sotto questo aspetto, le recenti vicende della Libia sono più che istruttive). Ne è derivato un impoverimento politico e culturale, che si vorrebbe compensare con massicce iniezioni di “razionalità tecnomorfa”, quasi che oggettività fosse sinonimo di adeguatezza. Non stupisce allora che perfino il sociologo Luciano Gallino, dopo avere affermato che “se l’industria italiana ebbe negli anni Sessanta e Ottanta un notevole sviluppo e una importante affermazione, lo si deve al fatto che la scuola pubblica, attraverso gli istituti specifici, formava decine di migliaia di tecnici, di periti, di capi”, abbia precisato che oggi però “di sapere tecnologico e tecnico ce n’è già molto nella scuola [mentre ci sarebbe] bisogno di persone che, accanto a una ragionevole dose di specializzazione, [avessero] ampie competenze generali e strategiche per comprendere i grandi fenomeni del mondo in movimento. Ci sarebbe molto più bisogno di quanto non si creda di pensiero critico in tutti campi”. (2) Ma ai disastri combinati negli ultimi due decenni non si può porre rimedio in breve tempo, mentre il tempo del Paese pare essere veramente scaduto.

D’altronde, se si dovesse ritenere che queste considerazioni, in definitiva, non siano pertinenti, giacché i problemi da risolvere sono essenzialmente di natura economica, ci si lasciarebbe sfugggire che è proprio la debolezza strategica del nostro sistema che rende possibile un attacco contro l’Italia, senza correre eccessivi rischi, dacché, nonostante tutto, vi sarebbero ancora molte “carte” da giocare, se alla guida del Paese vi fosse una classe dirigente degna di questo nome ed una opinione pubblica ben informata e capace di valutare con cognizione di causa qual è l’interesse nazionale, senza pregiudizi ideologici, ma anche senza rinunciare a (ri)definire il Politico e l’Economico alla luce di una idea di bene comune intersoggettivamente condivisa. (Al riguardo, non si può non criticare il pregiudizio, tipico del nominalismo, secondo cui esistono solo gli individui. Basta aprire un qualsiasi libro di storia per comprendere, come insegna il filosofo francese Paul Ricoeur, che i singoli Paesi, ma anche entità come il Mediterraneo – si pensi, ad esempio, alle opere di Fernand Braudel – agiscono come “personaggi” di un racconto, sono cioè “entità seconde” – nel senso che non sono “riducibili” agli individui, pur se esistono solo in quanto esistono gli individui. Ed è naturale che per definire, su basi storiche e razionali, l’interesse nazionale si debba tener conto di questo “secondo” o, se si vuole, “emergente” livello di realtà).

Pertanto, occorre riconoscere che sono le condizioni generali del sistema italiano che impediscono a priori quel rinnovamento sociale e politico senza il quale è del tutto illusorio pensare di evitare il declino del Paese, anche se si riuscisse non a risolvere ma perlomeno a “gestire”, in qualche modo, la crisi economica. Di fatto, in politica vale, mutatis mutandis, quel che vale per le istituzioni militari; ossia sono tre i fattori che contano: preparazione tecnica e materiale, azione di comando e preparazione morale. E poiché in Italia difettano tutt’e tre, occorre prendere atto che non v’è alcun punto, se così è lecito esprimersi, su cui poter far leva per una autentica rifondazione della società e dello Stato. Del resto, i primi ad opporre resistenza ad un autentico e radicale rinnovamento sociale e politico sarebbero, con ogni probabilità, proprio i ceti medi (sebbene, paradossalmente, siano i ceti più “tartassati” e più bisognosi di riforme di struttura) dacché – oltre alla tradizionale idiosincrasia per la cultura (solo il 46,8% degli italiani “si accosta” ad un libro almeno una volta l’anno rispetto al 70% dei Paesi dell’Unione europea), alla propensione a premiare i furbi e punire i meritevoli, al pressappochismo ed a scambiare la (vuota) forma per la sostanza (non è il nostro Paese quello dei “dottori” e dell’ordine dei giornalisti?) – nell’arco di qualche decennio si è pure diffuso un modello di consumismo tra i più grossolani e volgari dell’Occidente, che ha ulteroriormente indebolito la coscienza civica, la memoria storica e la maturità intellettuale dei ceti medi italiani (né ciò è forse senza relazione con l’ondata pseudorivoluzionaria del ’68 italiano, dato che non è affatto un caso che gran parte dei sessantottini siano diventati i – peggiori o migliori, a seconda di chi giudica – consiglieri di Mammona). Sicché, è lecito ritenere che anche la parola d’ordine “sovranità” (politica, militare, culturale), per quanto condivisibile, rischi di essere nulla più di un “wishful thinking”, a meno che la storia di questi ultimi anni non generi essa stessa quel “contraccolpo” necessario per un radicale mutamento di paradigma, che non dovrebbe concernere solo l’Italia, bensì la stessa Europa. Non solo perché la questione della sovranità nazionale, volenti o nolenti, passa attraverso le istituzioni della Unione europea, ma perché il sistema italiano, per le ragioni sopraccitate, non può essere (o è assai poco probabile che possa essere) “ri-formato” dall’interno. Nondimeno, la crisi dell’euro – niente affatto di natura contingente ed al tempo stesso causa ed effetto di una trasformazione della Unione europea in una sorta di gigantesco supermercato, di gran lunga più utile alle banche cha non ai popoli europei – lascia pensare che la “vera crisi” sia ancora all’inizio, con quel che ne può conseguire sia per l’Europa che per l’Italia. Crisi di sistema, quindi, non intepretabile secondo un’ottica economicistica, tanto quella dell’Italia quanto quella della Unione europea. Ovviamente, si tratta di crisi indubbiamente diverse, ma non irrelate. Ciò non significa che possano essere gli europei a risolvere i problemi degli italiani – ché sarebbe ridicolo anche solo pensarlo – ma che si dovrebbe prestare attenzione soprattutto al modo in cui si può evolvere la “relazione” tra la crisi italiana e quella dell’Euro(pa), considerando questa stessa relazione in connessione con il passaggio, ancora in atto, da una fase storica tendenzialmente unipolare ad una che sembra essere multipolare, ma la cui configurazione non può non variare al variare della potenza (relativa) degli Usa. In questa prospettiva, certamente complessa, si gioca dunque un finale di partita che non potrebbe avere esito felice per il Paese, rebus sic stantibus. Questa non è una profezia, ma, lo si concederà, una semplice, anche se spiacevole, constatazione. Ciononostante, in politica le regole possono cambiare di punto in bianco – anzi, in un certo senso, sono le regole la vera posta in gioco – e non è azzardato ritenere che tanto più si ridurrà la potenza (relativa) degli Usa, ovverosia quanto minori saranno le possibilità degli Stati Uniti di realizzare il loro disegno di egemonia globale, tanto maggiori saranno le possibilità strategiche e operative di quei giocatori, non tutti di poca importanza, che, nell’attuale fase storica, potrebbero avere interesse a non rispettare più le regole del gioco. Non che si debba essere ottimisti, ché l’ottimismo, si sa, è l’oppio degli imbecilli; ma si dovrebbe evitare di farsi gabbare da chi, in buonafede o in malafede, pretende di vincere una partita che è irrimediabilmente persa. Ed essere invece consapevoli che la condizione necessaria per una soluzione, se non la soluzione, della crisi che attanaglia l’Italia (e non solo l’Italia) consiste, appunto, nel cambiare le regole del gioco, posto che anche l’attuale sistema sociale non è piovuto dal cielo, ma è l’effetto (benché non necessariamente quello voluto) di precise scelte strategiche.

 

Note

1)http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp/2011/sb23_11/suppl_23_11.pdf

2)http://diversamentestrutturati.noblogs.org/post/2011/05/02/i-precari-e-linganno-della-flessibilita-luciano-gallino/

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Politica economica post-Mubarak: quale interpretazione?

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L’economia è da sempre il metro di giudizio per eccellenza nelle decisioni politiche e militari egiziane. Come sta reagendo l’economia egiziana alla fase post-Mubarak? Perché proprio in questa delicata fase sembra rinunciare agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale? Quali sono i possibili risvolti nel gioco degli equilibri tra la sponda atlantica e il Medio Oriente e Africa del Nord?

L’Egitto sta attraversando un momento di forte crisi economica: l’inflazione è salita al 12.1 % nel mese di aprile contro gli 11.5 % del mese di marzo, una recessione che era iniziata ben prima della crisi finanziaria mondiale e che è stata certamente il primo fattore a scatenare le note proteste di piazza Tahrir al Cairo: oltre 80 milioni di egiziani infatti vivono al di sotto della soglia di povertà dei 2$ giornalieri stabilita dalla Banca Mondiale. Dagli anni ’70 a oggi gli egiziani hanno visto calare drasticamente il proprio potere d’acquisto e il proprio standard di vita il che, sommato al crescente tasso di disoccupazione giovanile, ha creato una miscela esplosiva che ha costituito terreno fertile anche per il recente cambiamento politico del paese. Dalla spesa pubblica troppo onerosa dell’epoca socialista del rais Nasser si è passati ad un piano di privatizzazioni sproporzionato rispetto al minimo tasso di crescita economica e di sviluppo industriale a cui l’Egitto stava andando incontro. Alle privatizzazioni imposte dal Washington Consensus attraverso i piani di sviluppo economico della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale non seguirono piani per l’implementazione dei posti di lavoro, ma solo tagli e licenziamenti nel neo settore privato. Attraverso operazioni poco trasparenti, gli stessi che prima controllavano il settore economico pubblico egiziano hanno rilevato negli anni ’70 e ’80 le industrie pubbliche con cifre nettamente inferiori ai loro effettivi valori di mercato. In questo modo, se il fine iniziale del piano di privatizzazione era quello di creare concorrenza per far fermentare l’economia, il settore economico egiziano rimase invece nelle mani della medesima classe politica che prima gestiva quelle stesse industrie per conto dello stato. Una casta che da una parte si guardò bene dal diversificare l’economia e incentivare lo sviluppo attraverso una reale e leale concorrenza industriale, e dall’altra non si sentì in obbligo a garantire ai lavoratori le stesse condizioni contrattuali precedenti.

Il reale potere d’acquisto degli egiziani calava, ma il PIL saliva: una serie di scelte politico-strategiche favorevoli agli USA attuate nella regione dai governi Sadat e Mubarak furono “ripagate” con finanziamenti, accordi economici, riduzioni del debito pubblico, ecc. e perfino “rimborsi” (come quello per l’alleanza egiziana agli USA nella Guerra del Golfo del 2003). Il risultato apparente era quello di un’economia in crescita, ma più che mai dipendente dagli aiuti esteri e condizionata dalle imposizioni che accompagnano tali aiuti.

I costi della rivoluzione

Dalla fine di Gennaio le perdite per l’economia egiziana toccano i 113 miliardi di sterline egiziane (circa 19 miliardi di dollari). Il crollo avanzava con un ritmo in negativo di 40 milioni al giorno. Il turismo, gli scambi commerciali, così come le attività finanziarie e bancarie sono rimaste ferme per circa due mesi, a cui si sono aggiunti i numerosi scioperi dei lavoratori appartenenti ai settori danneggiati. I mercati hanno riaperto solo a fine marzo, ma i continui scioperi hanno fatto calare le esportazioni del 40% allontanando così gli investimenti esteri.
Tuttavia, a dispetto delle perdite, le infrastrutture e il settore agrario non sono state danneggiate seriamente e questo, secondo il ministro dell’economia egiziano Samir Radwan, potrebbe costituire la base per una ricrescita economica del paese.

Secondo i rapporti della Banca Mondiale il rischio maggiore per la ripresa economica rimane sempre l’instabilità politica e la mancanza di certezze per il futuro che allontanano ancora oggi gli investimenti stranieri nel mercato locale e bloccano la ripresa del settore turistico. La BM guarda dunque ad un nuovo governo democratico e trasparente come la condizione necessaria per una risalita e per il ritorno di investimenti privati nel paese.

I recenti sviluppi della politica economica egiziana

Proprio alla luce dello storico rapporto economico e politico tra Egitto e USA, sembrerebbe una scelta in contro tendenza quella dell’attuale ministro dell’economia egiziano Samir Radwan che ha recentemente rifiutato gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Trattative tra il Ministero dell’Economia egiziano e la BM risalivano già a maggio, quando Radwan aveva fatto richiesta di 2,2 miliardi di dollari per far fronte alle perdite economiche dei mesi precedenti, specie del settore terziario. Un primo ripensamento però si è creato a seguito dell’ultima tavola rotonda dell’Organizzazione Araba per il Lavoro, in occasione del quale il ministro egiziano ha sottolineato il necessario cambiamento di qualità nel criterio di distribuzione dei fondi, non più finalizzato ad ottenere una mera percentuale di crescita (così come era avvenuto fin’ora con i piani del FMI e della BM), ma diretto ad una reale partecipazione degli egiziani allo sviluppo economico.

Il nuovo governo transitorio sembrerebbe quindi voler avviare una certa autonomia economica rispetto ad eventuali condizionamenti esteri, abbandonando la politica degli aiuti. Il Direttore Generale del Fondo Monetario Arabo, Jassem al-Manee, ha poi fatto appello per un nuovo modello di sviluppo economico, focalizzato nei settori industriale ed agricolo attraverso il sostegno alle piccole e medie imprese, seguendo un modello che avrebbe già portato dei risultati positivi in Turchia e Malesia. In questa direzione sembrerebbero andare diverse recenti iniziative, tra le quali il sostegno alla creazione di 150 aziende che porterebbero ad un totale di 2.834 nuovi posti di lavoro.

Secondo stime della Camera del Commercio egiziana basterebbe un tasso annuale di crescita economica del 4,6% nel periodo 2011-2020 ad incoraggiare gli investimenti esteri diretti. Il ministro intende infatti ridurre il disavanzo del budget per il prossimo anno finanziario 2011/2012 da 170 miliardi di lire egiziane a ben 134,3 miliardi attraverso una maggiore apertura del mercato locale agli investimenti sia locali che stranieri, ma anche attraverso lo sviluppo del settore energetico, non più petrolifero, ma del gas. La crisi economica e la guerra in Libia hanno mostrato quanto mai la debolezza egiziana proprio rispetto al settore energetico, l’Egitto avrebbe un grande potenziale di gas e certamente l’attuale situazione geopolitica della regione giocherebbe a suo vantaggio qualora decidesse di investire massicciamente nel gas.

Il controllo USA nel MENA (Middle East and North Africa)

Tuttavia, a confutare ogni eventuale speranza di indipendenza è l’impegno USA nel cancellare entro i prossimi tre anni il 33% del debito egiziano (circa 3 miliardi di dollari) attraverso una serie di progetti di sviluppo e di investimenti ad alta intensità. L’amministrazione Obama ha diverse volte dichiarato di voler appoggiare la fase di transizione politica egiziana garantendo la continuità dei rapporti bilaterali Egitto-USA e ribadendo il ruolo dell’Egitto come partner arabo di eccellenza nelle relazioni USA in Medio Oriente e Nord Africa.

Il futuro panorama politico egiziano non è ancora molto chiaro, la cosiddetta primavera araba non ha ancora portato ad una vera rivoluzione, ma per il momento solo ad un regime change che ancora non ha portato ad un reale mutamento di struttura. Il protagonismo dei movimenti islamisti, primo fra tutti quello della Fratellanza Musulmana, preoccupa seriamente gli Stati Uniti che ancora non si sbilanciano circa eventuali rapporti con il movimento. Anzi, pur di mantenere lo status quo, il Segretario di Stato USA Hilary Clinton nella sua ultima visita al Cairo avvenuta a seguito della caduta di Hosni Mubarak, si rifiutò di incontrare il papa copto Shenuda III, preferendo una grave rottura diplomatica con il patriarca di Alessandria piuttosto che rischiare di attrarre le antipatie politiche delle forze islamiste. Non è possibile analizzare le relazioni internazionali del MENA singolarmente secondo un approccio realista o liberista. Il ruolo egiziano di partner USA nel MENA è insieme politico, militare ed economico, i delicati rapporti con Israele intrecciano sia le ambizioni militari che quelle economiche e la questione del gas ne è una conferma: l’impegno governativo nell’investire nel gas rafforzerebbe i rapporti commerciali tra Egitto, Israele e USA, Israele è infatti, insieme alla Giordania, uno dei principali clienti per il gas naturale egiziano, che costituisce circa il 40% del suo totale consumo di gas, ed ogni accordo tra i due stati avviene sotto il bene augurio della potenza statunitense che a sua volta concede altre agevolazioni e accordi all’alleato egiziano.

I continui sabotaggi ai gasdotti nel Sinai tuttavia, potrebbero mettere in seria difficoltà il governo di transizione così come un qualsiasi prossimo governo in carica: quello di luglio avvenuto ad est di al-Arish, a 50 km dal confine israeliano, è il quarto sabotaggio avvenuto dopo la deposizione dell’ex presidente Mubarak, i beduini (e non solo) che rivendicano gli attentati e i sabotaggi ai gasdotti condannano gli accordi di pace con Israele firmati dal presidente Sadat nel 1979 e premono affinché il governo prenda una posizione netta nei confronti dei rapporti con Israele. Una delle accuse formulate contro Mubarak era stata proprio quella di aver “servito” gli interessi USA e Israeliani piuttosto che quelli nazionali e arabi, con particolare riferimento alle posizioni governative circa l’ultima intifada a Gaza del 2008-2009. Continuare sulla stessa linea politica incondizionata di fedeltà all’alleato USA e quindi ad Israele potrebbe delegittimare qualsiasi futura forza politica al governo, ma allora fino a quando sarà possibile mantenere lo status quo? Questo è un azzardo che coinvolge in misure e modi differenti gli attori in questione: il governo di transizione non sembra voler modificare la linea economico-politica del precedente regime se non nella politica degli aiuti, e non sappiamo ancora se un futuro governo, guidato con molta probabilità da forze islamiste, vorrà seriamente prendere una posizione a riguardo.

Kawkab Tawfik è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma. I suoi studi e le sue ricerche vertono soprattutto sul diritto musulmano e sulla politica egiziana.

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Statistiche Militari del Sudamerica e dell’Argentina

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Fonte: Geopolitica Argentina

La società argentina necessita inserirsi in un serio dibattito sulla difesa del proprio territorio, della popolazione e del suo patrimonio. La preponderanza di questa riflessione nazionale troverà nel presente lavoro gli strumenti d’analisi per fare i primi passi. Per tale ragione, questo studio contiene una base di dati per realizzare accuratamente confronti tra paesi, all’interno di un paese attraverso gli anni e tra di essi attraverso gli anni in ciò che viene definito Spesa Pubblica Militare, con l’inclusione di nozioni geografiche ed altre economiche di tipo comparativo.

In particolare cercheremo di dare una corretta presentazione (e messa a disposizione) dei dati più rilevanti, i quali accompagneremo con commenti che faciliteranno la loro interpretazione e lettura.

Presenteremo delle variabili per tutti i casi di questi dieci paesi sudamericani: Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Paraguay, Perù, Uruguay e Venezuela; abbiamo anche compiuto dei calcoli per il blocco geografico e ora anche politico denominato UNASUR.

(traduzione di Vincenzo Paglione)

Scarica il testo integrale del Rapporto in formato pdf:

Estadísticas Militares Suramericanas

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Attentato ad Oslo: le riflessioni del Washington’s Blog

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Fonte:  Attilio Folliero/DM, Caracas 22/07/2011

Oggi, per la prima volta nella sua storia, la Norvegia è stata oggetto di attentati terroristici: nel centro di Oslo, a poca distanza dalla sede del governo, l’esplosione di un’auto imbottita di esplosivi ha provocato morti e feriti ed al momento si parla di sette morti; un altro attentato è avvenuto nell’isola di Utoya, a una cinquantina di km dalla capitale norvegese; in questa località c’è stata una sparatoria durante un raduno di giovani laburisti, partito del premier Jens Stoltenberg, che tra l’altro doveva partecipare a questa manifestazione; anche questo secondo attentato ha lasciato una scia di morti e feriti ed al momento si parla di una ventina di morti.

Ovviamente si sa ancora poco su questi attentati, anche se sembra certo l’arresto di un uomo bianco, di aspetto scandinavo, legato alla sparatoria sull’isola.

Il governo norvegese si è prontamente riunito in un luogo segreto ed ha deciso di sospendere, immaginiamo momentaneamente, gli accordi di Schengen e di ripristinare i controlli alle frontiere. Questi i fatti occorsi di cui si ha notizia, al momento in cui scriviamo.

Intanto, arriva la prima rivendicazione, da parte di un gruppo terroristico denominato “Ansar al-Jihad al-Alami”, che si attribuisce la paternità degli attentati in forum jihadista. In questa rivendicazione, tutta da verificare, l’attacco è posto in relazione alla presenza norvegese in Afghanistan ed alle vignette satiriche contro il profeta Maometto, pubblicate da una rivista danese e rilanciate in tutti i paesi scandinavi, Norvegia compresa. Dunque la paterinità di questi attentati sarebbe ancora una volta araba ed il web dei media ufficiali ha subito rilanciato, a livello mondiale, la matrice araba di questi attentati.

Ma si impone subito una riflessione, indipendetemente dall’arresto di uno dei presunti attentatori, un uomo bianco dalla fattezze scandinave. La nostra riflessione coincide più o meno con quella che riporta il Washington’s blog:

La Norvegia è tra i paesi che ha riconosciuto lo stato palestinese ed ha annunciato che nella prevista votazione all’ONU, a settembre si schiererà a favore della creazione di uno stato palestinese;

La Norvegia ha annunciato il suo ritiro dalla guerra di Libia;

La Norvegia, secondo fonte di Haaretz, lo scorso anno ha escluso, per ragioni etiche, due imprese isaeliane dalla partecipazione allo sfruttamento dei pozzi petroliferi del mar del nord;

Circa due anni fa, il senatore statunitense-ebreo Lieberman aveva accusato la Norvegia di promuovere l’antisemitismo

Tutto può essere, ma come fa notare il Washington’s Blos, la Norvegia non sembra proprio un paese che possa entrare nel mirino degli Arabi. Mentre i media ufficiali del mondo, ed ovviamnete anche quelli italiani, hanno subito rilanciato l’idea di una possibile matrice araba degli attentati, noi preferiamo riflettere sugli eventi e sulla storia.

Caracas 22/07/2011

Fonte:
http://dosmundos2026.blogspot.com/2011/07/attentato-ad-oslo-le-riflessioni-del.html

http://attiliofolliero.blogspot.com/2011/07/attentato-ad-oslo-le-riflessioni-del.html

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La prima intervista rilasciata da Seif El Islam Gheddafi a un giornale arabo

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Fonte : http://www.france-irak-actualite.com/article-interview-de-seif-el-islam-kadhafi-79546453.html

Rassegna stampa: El Khabar (Algéria – 10/7/11)*

La prima intervista rilasciata da Seif El Islam Gheddafi a un giornale arabo

RAMDANE BELAMRI

RAMDANE BELAMRI: Seif El Islam, iniziamo con l’argomento che sta maggiormente a cuore all’opinione pubblica internazionale: a che punto sono i negoziati con l’opposizione di Bengasi?

SEIF EL ISLAM GHEDDAFI: «In realtà, i veri negoziati sono con la Francia, non con i ribelli. Tramite un mediatore speciale che ha incontrato il presidente francese, abbiamo ricevuto un chiaro messaggio da Parigi. Il presidente francese ha detto molto schiettamente al nostro inviato che “siamo noi ad avere creato questo Consiglio e senza il sostegno, i capitali e le armi francesi, esso non esisterebbe neppure”. I gruppi ribelli ci hanno contattato attraverso canali egiziani. Li abbiamo incontrati al Cairo, dove si è tenuto un round di negoziati, ma non appena i francesi hanno avuto notizia di questo incontro hanno detto al gruppo di Bengasi: “Noi vi appoggiamo, ma se vi saranno altri contatti con Tripoli senza che ce ne informiate o alle nostre spalle interromperemo immediatamente ogni sostegno…”. Tutti i negoziati devono dunque svolgersi passando attraverso la Francia. Hanno anche aggiunto: “Noi non facciamo questa guerra per disinteresse e senza contropartita alcuna. In Libia abbiamo interessi commerciali precisi e il governo di transizione dovrà approvare vari contratti”. Si riferiscono ai contratti relativi agli aerei Rafale, ma anche ai contratti della Total».

 

Perché non avete divulgato all’opinione pubblica i documenti che dimostrano i finanziamenti alla campagna di Sarkozy?

«Beh, non utilizziamo tutte le carte a nostro favore in un colpo solo! Abbiamo più di un asso nella manica e lo utilizzeremo al momento opportuno».

A che punto sono le mediazioni internazionali? Qual è la situazione al momento, soprattutto dopo la visita del mediatore russo che ha preso atto della realtà dei fatti e dopo l’incontro tra il presidente della Nato e il presidente russo Medvedev, e ancora l’incontro di quest’ultimo con il presidente sudafricano Jacob Zuma, il mediatore della controparte?

«Prima di tutto vorrei fare alcune precisazioni: tutto la comunità internazionale si è fatta beffe di loro sulla stampa. Hanno mentito al mondo intero dichiarando che lo stato libico aveva ucciso migliaia di manifestanti e bombardato la popolazione civile. Il mondo oggi sa che si trattava soltanto di menzogne. L’organizzazione Human Rights Watch ha confermato che si trattava di informazioni fasulle. Anche Amnesty International ha dichiarato che si trattava di menzogne, e dal canto suo il Pentagono ha condotto un’inchiesta interna, giungendo anch’esso alla conclusione che si trattava  soltanto di menzogne».

Ritorniamo alle mediazioni internazionali: a che punto sono?

C’è una road map africana sulla quale concordano tutti. Noi vogliamo organizzare le elezioni e arrivare a un governo di unità nazionale. Siamo disposti a svolgere le elezioni sotto il controllo delle organizzazioni internazionali, e a varare una nuova Costituzione, ma i ribelli si rifiutano di accettare tutto ciò. Perché? Perché noi non abbiamo ancora trovato un accordo con Parigi».

A Sebha il colonnello Gheddafi venerdì ha parlato ai suoi sostenitori e ha minacciato di vendicarsi e di inviare kamikaze in Europa. Non temete di essere assimilati ai terroristi?

«Prima di tutto è nostro diritto attaccare gli stati che ci attaccano e che uccidono i nostri bambini. Hanno ammazzato il figlio di Muammar Gheddafi, ne hanno distrutto la casa e ucciso i famigliari. Non c’è una sola famiglia in Libia che non sia stata vittima degli attacchi della Nato. É per questo motivo che siamo in guerra: è stata la Nato a iniziare. Che ora se ne assuma le conseguenze».

Seif El Islam, si candiderà alle elezioni della futura Libia?

«Nel 2008 sono ufficialmente uscito dalla politica libica. Da allora e fino all’inizio della crisi ho vissuto lontano dal paese, in Cambogia… Sono tornato in Libia all’inizio di questi avvenimenti. Ero fuori dalla politica, ma dopo quanto è accaduto in Libia, ormai,  è tutto cambiato. Ora le cose stanno diversamente: abbiamo assistito a tradimenti, giochi di interesse e tentativi di colonizzazione. Non vedo perché non dovrei candidarmi. A questo punto ogni opzione è aperta».

Alcuni ipotizzano una spartizione della Libia. Il primo ministro inglese David Cameron ha già dichiarato che è necessario dividere il Sahara libico. Che cosa ne pensa?

«Sì, esiste un piano inglese per procedere alla spartizione della Libia. Tale piano prevede che l’ovest e il sud vadano alla Francia, l’est alla Gran Bretagna, e infine che a Tobruk sorga una base militare britannica. Tutto ciò non è certo un segreto, ma si tratta soltanto di velleità colonizzatrici che non si concretizzeranno».

Che cosa rappresenta per lei l’Algeria?

«In tutta sincerità, se lo chiede a un libico qualsiasi le risponderà che gli algerini sono molto simili ai libici. Purtroppo, come avrà sicuramente avuto modo di constatare, l’unico paese arabo preso di mira dai fuorilegge è proprio l’Algeria. Con gli algerini abbiamo qualcosa di preciso in comune:  loro hanno lottato contro la Francia in passato; noi lo stiamo facendo adesso… La mediazione dell’Algeria è ben accetta, in quanto essa ha sempre rivestito un ruolo unificante. Vorrei precisare che le posizioni dei paesi arabi sono vergognose, mentre l’Algeria è tra i pochi paesi arabi ad avere assunto una posizione completamente diversa. Il popolo libico non lo dimenticherà, mai, ed è per questo che la mediazione algerina è gradita ai fini della riconciliazione tra i fratelli libici».

Vuole aggiungere ancora qualcosa? Esprimere un’ultima idea?

«Vorrei che la comunità internazionale prestasse molta attenzione a quello che sta accadendo in Libia, dove è in corso una delle più grandi campagne di disinformazione e distorsione dei fatti. Gli europei e gli stessi americani hanno riconosciuto questa verità. I media hanno creato molti scandali, mai esistiti. Vogliamo rivolgerci alla comunità internazionale e metterla in guardia dalle immagini trasmesse dai canali satellitari e da Internet: sono fotomontaggi, sono montature. Uno di questi giorni la verità salterà fuori!».

Traduzione di Anna Bissanti

* http://fr.elkhabar.com/?L-Algerie-n-est-pas-un-peuple-de

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La contesa geopolitica sino – statunitense

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Che la prorompente ascesa di svariati paesi abbia assestato un duro colpo all’assetto mondiale incardinato sull’unipolarismo statunitense è un fatto che pochi oseranno contestare.

La resurrezione della Russia sotto l’autoritaria egida di Putin affiancata all’affermazione della Cina al rango di grande potenza costituiscono i due principali fattori destabilizzanti in grado di ridisegnare i rapporti di forza a livello internazionale.

Se la Russia, tuttavia, ha potuto contare sulla monumentale eredità sovietica, la Cina ha fatto registrare un progresso politico ed economico assolutamente straordinario.

Il lungimirante progetto di ristrutturazione messo a punto in passato da Deng Xiao Ping ha inoppugnabilmente svolto un ruolo cruciale nell’odierno riscatto cinese e tracciato un solco profondo entro il quale sono andati a collocarsi tutti i suoi successori, da Jang Zemin a Hu Jintao, passando per Jang Shangkun.

Come tutti i paesi soggetti a forte sviluppo economico, la Cina si trova a dover soddisfare una crescente seppur già esorbitante domanda di idrocarburi.

Per farlo, è costretta ad estendere la propria capacità di influenza ai paesi produttori Medio Oriente e a quelli dell’Africa orientale attraverso i territori dell’Asia centrale e le vie marittime che collegano il Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale.

In vista di tale scopo, la diplomazia cinese ha escogitato una efficace strategia diplomatica imperniata sul principio della sussidiarietà internazionale e profuso enormi sforzi per dotarsi di un esercito capace di sostenere gli ambiziosi progetti egemonici ideati dal governo di Pechino.

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che raggruppa Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, e Uzbekistan e che annovera Iran, Pakistan, India e Mongolia in qualità di osservatori – patrocinata dalla Cina ha promosso una partnership strategica tra i paesi aderenti ad essa atta a favorire un’integrazione continentale in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutto l’insieme.

In aggiunta, va sottolineato il fatto che è in fase di consolidamento l’asse Mosca – Pechino nello scambio tra armamenti e petrolio.

La Cina acquista gran parte delle proprie forze militari dalla Russia dietro congrui conguagli e costituisce il primo cliente per il mercato bellico russo.

Caldeggia la realizzazione di una pipeline che attinga dai giacimenti russi e faccia approdare petrolio ai terminali cinesi, trovando però l’opposizione della Russia, incapace di far fronte tanto alla domanda cinese quanto a quella europea.

In compenso, Mosca sostiene la realizzazione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico finalizzato a far affluire il gas iraniano in territorio cinese attraverso Pakistan ed India, in grado di orientare gli idrocarburi iraniani verso est e consentendo in tal modo alla Russia di assestarsi su una posizione assolutamente dominante ed incontrastata sul solo mercato europeo.

Ruggini vecchie e nuove hanno impedito la rapida realizzazione dei progetti in questione portando il governo di Pechino ad individuare soluzioni alternative.

Non a caso, uno dei grandi scenari in cui si gioca attualmente la partita tra gli Stati Uniti in declino ma decisi a vender cara la pelle e la rampante Cina in piena ascesa economica è l’Africa, che grazie alle sue immense risorse di idrocarburi (e materie prime) costituisce l’oggetto del desiderio tanto dell’una quanto dell’altra potenza.

La Storia insegna sia che la scoperta di giacimenti di idrocarburi nelle regioni povere costituisce il reale movente dei conflitti che vedono regolarmente fazioni opposte combattere aspramente, quasi sempre a danno della popolazione, per garantirsene il controllo sia che dietro di esse si celano direttamente o indirettamente quelle grandi potenze interessate ad estendere la propria egemonia geopolitica.

Sudan, Nigeria, Congo, Angola, Yemen, Myanmar (l’elenco è sterminato).

La penetrazione di Pechino in Africa è proceduta gradualmente, ma il consolidamento di essa è stato reso possibile solo grazie ai passi da gigante fatti registrare dalla marina cinese.

Dietro suggerimento dell’influente ammiraglio Liu Huaqing, il governo di Pechino aveva infatti sostenuto il progetto riguardante l’adozione di sottomarini classe Kilo e di incrociatori classe Sovremenniy, oltre al potenziamento dei sistemi di intelligence e delle tecnologie militari necessarie a supportare una flotta efficiente ed attrezzata di tutto punto per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia.

Il Primo Ministro Hu Jintao e suoi assistenti di governo hanno inoltre potuto approfittare della risoluzione ONU di fine 2008 finalizzata alla repressione della pirateria del Corno d’Africa per insinuare la propria flotta fino al Golfo Persico e al largo del litorale di Aden, don licenza di sconfinare in aperto Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.

La pirateria, ben supportata dal caos politico che governa la Somalia, in questi ultimi anni ha esteso consistentemente il proprio raggio d’azione arrivando a lambire le coste dell’Indonesia e di Taiwan ad est e del Madagascar a sud.

Ciò ha effettivamente sortito forti ripercussioni sui traffici marittimi internazionali, portando circa un terzo delle cinquemila imbarcazioni commerciali che transitavano annualmente per quella via a propendere per il doppiaggio del Capo di Buona Speranza pur di evitare di imboccare il Canale di Suez.

Ciò ha comportato un dispendio maggiore di denaro dovuto alla dilatazione dei tempi di trasporto e rafforzato le ragioni della permanenza della flotta cinese lungo le rotte fondamentali.

Tuttavia l’opera di contrasto alla pirateria – sui cui manovratori e membri effettivi ben poca luce è stata fatta – si colloca in un piano del tutto secondario nell’agenda cinese, interessata prioritariamente ad assumere il controllo delle rotte marittime fondamentali e dei paesi che si su di esse si affacciano.

Di fondamentale importanza a tale riguardo risultano gli stretti di Malacca e Singapore, specialmente in forza della quantità di petrolio che vi transita, ben tre volte superiore a quella che transita attraverso il Canale di Suez.

Circa quattro quinti dei cargo petroliferi provenienti dal Golfo Persico destinati alla Cina passa per lo Stretto di Malacca, mentre gran parte di quelli diretti al Giappone passano per quello di Singapore.

E’ interessante notare come, di converso, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano agito pesantemente per destabilizzare i paesi che costituiscono l’asse portante della strategia cinese.

La secessione del Sudan del Sud dal governo centrale di Khartoum ha minato l’integrità della Repubblica del Sudan privandola dell’area ricca di petrolio e compromettendone gran parte degli introiti legati alle esportazioni.

Nel fomentamento dei dissidi si è intravista la mano pesante di Israele, che per ammissione dello stesso ex direttore dello Shin Bet Avi Dichter aveva sostenuto attivamente le forze indipendentiste del sud.

Un’operazione atta a privilegiare le etnie e le tribù meridionali invise alla preponderanza araba del resto del paese, che segna una logica soluzione di continuità rispetto alla classica strategia antiaraba propugnata da Tel Aviv, interessata costantemente a stringere legami con i paesi regionali non arabi.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano rifornito di aiuti i paesi limitrofi al Sudan affinché sovesciassero il governo centrale di Khartoum fin dall’era Clinton, mentre attualmente si sono “limitati” a stanziare corpose iniezioni di denaro a contractors privati incaricati di addestrare le frange secessioniste.

La Cina era il principale sponsor del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, con il quale erano stati regolarmente barattati tecnologie, armamenti e infrastrutture in cambio di petrolio.

Un altro paese fortemente destabilizzato in relazione alla sua posizione strategicamente cruciale è lo Yemen, cui gli Stati Uniti hanno richiesto con insistenza la concessione dell’isola di Socotra per installarvi una base militare che, se unita alla Quinta Flotta stanziata nel vicino Bahrein, formerebbe la principale forza militare dell’intero Golfo Persico.

L’isola si situa a metà strada tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano ed occupa una posizione che coincide con il crocevia delle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo, mediante il Canale di Suez, al Golfo di Aden e al Mar Cinese Meridionale.

Myanmar è stato invece oggetto di una vera e propria rivoluzione colorata, quella “color zafferano” che deve il suo nome al colore delle vesti indossate dai monaci buddhisti protagonisti delle rivolte antigovernative.

Non è un segreto che la giunta militare guidata dall’enigmatico generale Than Shwe si sia resa responsabile di efferatezze che la rendono difficilmente difendibile, ma siccome gli stati non hanno mai conformato il proprio operato alle tavole della legge morale non stupisce che il sostegno statunitense accordato alle frange rivoltose non abbia nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani, ma risponda a ben precisi obiettivi geopolitici.

Il dominio degli stretti di Malacca e Singapore consente infatti di esercitare un controllo diretto sugli approvvigionamenti energetici destinati alla Cina.

La Cina ha però effettuato le proprie contromosse, fornendo il proprio appoggio politico all’isolato governo di Rangoon e raggiungendo con esso accordi commerciali e diplomatici di capitale importanza strategica.

Pechino ha rifornito la giunta militare al potere di armamenti e tecnologie militari, ha stanziato fondi sostanziosi per la costruzione di numerose infrastrutture come strade, ferrovie e ponti.

In cambio, ha ottenuto il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti gasiferi presenti sui fondali delle acque territoriali ex birmane oltre a quello di dislocare le proprie truppe e di installare basi militari nel territorio del Myanmar.

Alla luce dei fatti, risulta che il Myanmar corrisponda a un segmento fondamentale del “filo di perle” concepito da Pechino, l’obiettivo strategico che prevede l’installazione di basi militari in tutti i paesi del sud – est asiatico che si affacciano sull’oceano indiano.

Tale obiettivo è oggettivamente favorito dall’evoluzione dei rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, in evidente rotta di collisione.

Islamabad ha mal digerito tanto le accuse di connivenza con il terrorismo rivolte ai propri servizi segreti (ISI) quanto le sortite unilaterali compiute dai droni statunitensi in territorio pakistano e ha giocato sulla centralità mediatica di cui è stato oggetto il poco credibile blitz che avrebbe portato all’uccisione di Osama Bin Laden per esternare pubblicamente la propria ferma protesta nei confronti dell’atteggiamento di Washington, che ha a sua volta replicato aspramente per bocca del Segretario alla Difesa Robert Gates e poi  per il suo successore Leon Panetta.

Ciò ha spinto Pechino a scendere in campo al fianco del Pakistan, suscitando il plauso del Presidente Ali Zardari.

Tuttavia le relazioni tra Cina e Pakistan erano in fase di consolidamento da svariati mesi e hanno prodotto risultati letteralmente allettanti.

La realizzazione del porto sia civile che militare di Gwadar, dal quale è possibile dominare l’accesso al Golfo Persico,  è indubbiamente il più importante di essi.

Il progetto in questione comprende inoltre la costruzione di una raffineria e di una via di trasporto in grado di collegare lo Xinjiang al territorio pakistano.

Un valore aggiunto al porto di Gwadar  è già stato inoltre conferito dall’intesa raggiunta con Islamabad e il governo di Teheran relativa alla realizzazione di un corridoio energetico destinato a far approdare il gas iraniano ai terminali cinesi.

In tal modo  lo sbocco portuale di Gwadar promette di divenire una dei principali snodi commerciali per l’energia iraniana, attirando Teheran verso l’orbita cinese e consentendo quindi al governo di Pechino di inanellare un’ulteriore gemma alla propria “collana di perle”.

La chiara vocazione eurasiatica del progetto cinese ha ovviamente suscitato forti preoccupazioni presso Washington, che non mancherà di lastricare di mine la nuova “via della seta” finalizzata a compattare il Vicino e Medio Oriente all’Asia orientale e suscettibile di sortire forti contraccolpi sulla politica energetica europea, destinata a legarsi indissolubilmente alla Russia.

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UE: sfide e opportunità della Presidenza polacca

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Per la prima volta la Polonia ha assunto, a partire da luglio e per i prossimi sei mesi, la guida dell’Unione Europea: un momento storico che rappresenta l’opportunità per Varsavia di costruire le basi per un ruolo più influente a livello internazionale e per Bruxelles di trarre nuova linfa vitale da un Paese giovane, stabile e in rapido sviluppo. Il tempo a disposizione e l’effettivo peso della Polonia in ambito comunitario rischiano però di rendere questa sfida più difficile del previsto.

Coesione e crescita

L’ambizione della Presidenza polacca, così come esposto dal premier Tusk nelle scorse settimane, è quella di riuscire a ristabilire la fiducia nell’Unione Europea e nella necessità della sua esistenza, rafforzando il senso di appartenenza degli Stati membri e riscoprendo i valori fondanti l’integrazione. Il programma elaborato da Varsavia per il semestre in corso si apre, infatti, con la previsione di azioni volte a consolidare la coesione tra i Paesi membri, tramite l’elaborazione di strategie concordate in nome di un interesse comune europeo. In questo senso, è centrale per Varsavia diffondere una concezione dell’integrazione europea intesa come “fonte di crescita” e perseguire tale fine sia a livello di crescita economica, sia nel senso di un approfondimento della cooperazione tra gli Stati. La mancanza di una volontà politica condivisa, che operi in direzione di una crescita così duplicemente intesa, equivale, infatti, a un fattore di debolezza, capace di mettere a rischio non solo l’immagine dell’Unione Europea come entità appunto “unita”, ma anche e soprattutto il suo stesso futuro. La determinazione, il realismo e le idee chiare che la Polonia dimostra di avere su questi punti, unite all’entusiasmo europeista manifestato da Varsavia, fanno ben sperare in un cambio di rotta che dia un nuovo slancio all’Unione.

Un esempio di ciò è il fatto che, in base al programma presentato, Varsavia è decisa a far sentire la sua voce anche sul tema della libera circolazione delle persone, pilastro fondante l’Unione Europea, messo recentemente in discussione dalla decisione della Danimarca di sospendere il Trattato di Schengen, ripristinando i controlli doganali ai confini. A testimonianza dell’impegno polacco in favore di una maggior coesione all’interno dell’Unione Europea, il premier Tusk, commentando la notizia, ha ribadito la determinazione della Polonia, in quanto Presidente di turno, a opporsi a iniziative che, come quella di Copenaghen, consistano di fatto in passi indietro per Bruxelles.

 
La sicurezza come priorità

Una simile visione si basa sulla convinzione che l’Unione Europea abbia bisogno, per non retrocedere sulla via dell’integrazione, di ampliare i suoi campi di competenza e, dunque, di rilanciare quelle politiche sulle quali manca un consenso unanime. In questo contesto, la sfida che la Polonia si appresta ad affrontare è connessa, in particolare, alla necessità, espressa dalla stessa Varsavia, di creare una convergenza negli ambiti della politica estera e della difesa, nei quali, in effetti, la varietà di posizioni a cui si è assistito in occasione dei recenti eventi in Nord Africa, dimostra come, nonostante le previsioni del Trattato di Lisbona, in questi campi gli Stati membri preferiscano ancora decidere autonomamente. La priorità assegnata a queste questioni si spiega ricordando la storia, la collocazione geografica e il valore geopolitico di questo Paese: situata tra la Germania e la Russia, la Polonia ha vissuto tre spartizioni, sottomessa per gran parte della sua storia alla dominazione straniera, costretta a seguire modelli culturali e di sviluppo imposti dall’esterno, per poi, infine, ricostituire l’agognata unità nazionale. I segni di questo passato sono indelebili: i timori mai sopiti della Polonia in merito a eventuali ingerenze da parte di Mosca, ad esempio, sono tuttora all’origine degli sforzi di Varsavia finalizzati alla fondazione di una politica di difesa europea, che rappresenterebbe per questo Paese la garanzia di una maggiore sicurezza. Del resto, che questo sia un argomento che sta a cuore alla Polonia, è confermato dal fatto che Varsavia si sta muovendo, al fine di assicurare la difesa del Paese, in più di una direzione, segnatamente verso gli Stati Uniti, e allo stesso tempo verso l’Europa. Risalgono a poche settimane fa, infatti, gli accordi sottoscritti con Washington, inerenti la presenza militare statunitense sul territorio polacco, a testimonianza di un avvicinamento tra i due Paesi, in funzione di un contenimento preventivo di Mosca e dunque del potenziamento dell’area che corrisponde al confine orientale della Polonia e della Nato. Varsavia punta, però, anche alla realizzazione di un comando tattico-militare con i Paesi del gruppo di Visegrad, l’alleanza tra Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria, stipulata nel 1991 in vista di un’adesione congiunta di tali Paesi all’Unione Europea. I progetti che, come questo, promuovono una maggiore cooperazione tra gli Stati membri, sebbene geograficamente circoscritta, consistono in passi in direzione della fondazione di una sicurezza di stampo europeo, che Bruxelles potrebbe valorizzare, anche in considerazione dell’influenza che, per sua stessa natura, la Polonia potrebbe esercitare in questo ambito. Il sostegno a queste iniziative lascerebbe, inoltre, meno spazio ad accordi che coinvolgano Paesi extra-comunitari e che quindi capaci di deviare gli interessi degli Stati membri verso una dimensione della sicurezza che non sia quella europea.

Le preoccupazioni della Polonia attengono inoltre alla sicurezza energetica, legata anch’essa alla volontà di svincolarsi da Mosca e di rendere l’Unione Europea energeticamente indipendente dalla Russia, attraverso scelte comuni finalizzate a diversificare la provenienza degli approvvigionamenti e a garantirne l’affidabilità sui mercati internazionali. A questo proposito, vale solo la pena di accennare al progetto di sfruttamento del gas Shale, un tipo di gas naturale che per alcuni esperti costituisce la nuova frontiera nel campo dell’energia e che è presente in grande quantità sul territorio polacco. Se riuscirà a superare le resistenze delle correnti ambientaliste, allarmate per il rischio di inquinamento delle falde acquifere e dell’aria conseguenti alle operazioni di estrazione, la Polonia potrà davvero sperare in un’indipendenza energetica che avrà un significativo impatto sull’economia nazionale ed europea.

L’obiettivo di un’Europa solidale

La Presidenza polacca può apportare un significativo contributo in seno all’Unione Europea anche per quanto concerne la gestione delle difficoltà legate alla crisi economica. Non solo, infatti, può fungere da esempio per gli altri Paesi, in quanto le sue strutture economiche stanno affrontando la congiuntura negativa mondiale in maniera eccellente, ma soprattutto perché, anche in questo ambito, Varsavia sostiene la necessità di una maggiore coesione tra i vari partner. Infatti, di fronte alla riluttanza di chi si pronuncia in favore del ritorno alle economie nazionali, la Polonia difende la via di un sostegno congiunto agli Stati membri a rischio di bancarotta e si fa promotrice di un approccio improntato alla solidarietà. E del resto, non poteva essere altrimenti, dal momento che la parola “solidarietà” è legata a doppio filo a un Paese nel quale il sindacato “Solidarnosc” ha giocato un ruolo centrale nella rinascita dell’unità nazionale e nella storia dell’Europa. La Polonia sembra dunque dimostrare uno spiccato sentimento europeista, che non mette in discussione i vantaggi dell’integrazione economica e monetaria (di quest’ultima però Varsavia non fa ancora parte), come fanno invece coloro che vedono nell’abolizione dell’Euro la soluzione a tutti i problemi. Uno spirito solidale dunque, ma che certamente non è estraneo a valutazioni circa l’importanza che per il Paese rappresenta il mercato unico europeo e l’esigenza che il sistema economico dell’Unione Europea nel suo complesso non conosca recessioni. La Polonia è, infatti, uno Stato giovane in rapida crescita, potenzialmente influente sia in ragione della sua dimensione demografica, sia sul piano economico, e che, grazie all’integrazione con Bruxelles, ha potuto meglio valorizzare le proprie risorse, modernizzare il sistema e guadagnare in competitività. Ciò è evidente soprattutto all’interno del mondo agricolo, settore trainante in Polonia, dove i sussidi di Bruxelles e il mercato comunitario hanno consentito un rapido sviluppo. Se però, in ragione delle circostanze esposte, la Presidenza polacca può contribuire a consolidare il senso di appartenenza dei Paesi membri alla “famiglia” europea, testimoniando l’utilità dell’integrazione, è tuttavia altrettanto vero che su questi temi Varsavia non può ancora avere un peso determinante. È difficile, infatti, che uno Stato che rappresenta il 5% del PIL dell’Unione Europea e soprattutto che non fa parte della zona Euro, possa trattare le questioni economiche comunitarie alla pari con le nazioni più influenti.

 
Un esempio di stabilità

L’importanza che riveste la Polonia per l’Unione Europea è poi soprattutto quella di essere un ottimo esempio della buona riuscita dell’allargamento: un Paese nel quale, i vantaggi che l’adesione ha comportato hanno avuto l’effetto di smorzare l’euroscetticismo e portato stabilità sia sul piano economico sia su quello politico. Sotto questo primo punto di vista, la crescita dell’economia, stabile intorno al 4%, costituisce un dato significativo in tempo di crisi, che rende conto della solidità del sistema, in parte da ricondurre alle sempre più strette relazioni commerciali intrattenute con la Germania. Oltretutto, il boom degli ultimi anni ha aumentato nei polacchi la fiducia nelle loro stesse risorse, portandoli a superare quella sorta di complesso di inferiorità causato da una prolungata separazione interna e dall’Europa, di cui la Polonia si sente parte integrante. Permangono, tuttavia, alcuni problemi che impediscono uno sviluppo più rapido; tra questi, la struttura stessa del sistema, tecnologicamente poco avanzato e dominato da piccole imprese a conduzione familiare, che non riesce a garantire un’occupazione a un sempre maggior numero di giovani laureati, costretti così ad emigrare. Sul piano politico, il governo liberal-conservatore di Tusk, che guida il Paese dal 2007, e il Presidente della Repubblica Komorowski, eletto nel 2010, sono espressione della medesima forza politica, la Piattaforma Civica: una situazione che favorisce il dialogo inter-istituzionale, a tutto vantaggio della governabilità del Paese.

Verso Est

Dal punto di vista geopolitico, la Polonia è prima di tutto un Paese fortemente strategico, ed è sulla base di questa consapevolezza che il ruolo prevede di svolgere in questi sei mesi è anche quello di ponte tra l’ente che è chiamata a presiedere e i Paesi a Est dell’Unione Europea, in particolare gli Stati che sono associati a Bruxelles per mezzo dell’accordo di Partenariato Orientale, concordato a Praga nel maggio 2009. D’altra parte, proprio all’iniziativa polacca si dovette la sottoscrizione di tale accordo, che costituisce una diramazione della Politica Europea di Vicinato e coinvolge Paesi con i quali Varsavia condivide l’eredità del passato sovietico: Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia, Ucraina e Bielorussia. In questo suo compito la Polonia può essere particolarmente efficace, anche perché di quel mondo essa è ora come ora il miglior esempio di sviluppo realizzato. Il rilancio del Partenariato Orientale, la cui riuscita è però vincolata ad un imprescindibile aumento dei finanziamenti destinati a tale progetto, si compone, così come prospettato dalla Polonia, di alcune azioni essenziali: prime fra tutte, la previsione di agevolazioni nella concessione dei visti e la realizzazione di interventi di modernizzazione nei Paesi interessati, al fine di stimolare l’accettazione del modello europeo. Nel tempo limitato di un semestre, è realistico pensare che un passo avanti in questo senso potrà essere raggiunto con la conclusione di un accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e l’Ucraina, un primo segnale di avvicinamento che aprirebbe la strada a trattati simili con gli altri Paesi dell’area, in vista di una loro futura adesione, e al contempo un risultato di cui la Polonia potrebbe fregiarsi a livello internazionale.

Ostacoli e aspirazioni

La Polonia dà avvio a un nuovo ciclo di Presidenze, che proseguirà poi con la Danimarca e con Cipro, Paesi con i quali Varsavia ha concordato già da tempo le linee fondamentali per condurre l’Unione Europea nei prossimi 18 mesi. La cosiddetta Presidenza a trio, introdotta con il Trattato di Lisbona, concilia, infatti, il principio della rotazione paritaria con l’esigenza di una maggiore continuità delle strategie e, in effetti, la limitatezza del tempo a disposizione della Polonia è compensata proprio dal fatto che i passi che verranno intrapresi in questo semestre, costituiranno solo l’inizio di un processo che poi la Presidenza danese e cipriota porteranno a compimento. Sulle spalle della Polonia grava, dunque, il peso di una grande responsabilità, non solo perché è chiamata a gestire emergenze di ampia portata, ma anche perché con la sua capacità di impostare il programma in maniera incisiva, influirà anche sull’operato delle Presidenza a venire.

La posizione di Presidente del Consiglio dell’Unione, che pone la Polonia al centro della scena europea per i prossimi sei mesi, costituisce però allo stesso tempo una possibilità dal valore inestimabile, soprattutto per quanto riguarda ciò a cui probabilmente Varsavia aspira di più: un ruolo attivo e di rilievo sulla scena internazionale. Una simile posizione, infatti, non solo consente a Varsavia di avere i mezzi per portare alla ribalta e per far valere le proprie istanze, ma le conferisce anche la visibilità di cui ha bisogno per dare prova di credibilità e per farsi conoscere, per mostrare al mondo i progressi compiuti a soli vent’anni dall’indipendenza: la democrazia compiuta e la stabilità politica ed economica. L’impatto che potrà avere un Paese in crescita come la Polonia sul modus operandi dell’Unione Europea e sulle sue priorità, è certamente limitato dal fatto che l’“ente” in questione sembra ancora essere diviso tra una stretta cerchia di Stati che influenzano le politiche comunitarie e Stati, di fatto, periferici rispetto alle decisioni prese a Bruxelles. Varsavia rientra ancora nelle fila di questi ultimi, ma ha le potenzialità non tanto per entrare a far parte del gruppo dei primi, quanto piuttosto, e ciò è un aspetto fondamentale per il futuro dell’Unione Europea, per aprire la strada ad una distribuzione più equa del potere, ad una maggiore unitarietà e ad un’integrazione europea di più ampio respiro.

 

* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

 

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Eric Walberg, Post modern Imperialism. Geopolitics and the Great Games

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Eric Walberg
Postmodern Imperialism. Geopolitics and the Grat Games
Clarity Press Inc.
Atlanta, GA 3035, USA 2011
$17.95
ISBN:  9780-9833539-3-5     300 pp.

Postmodern Imperialism. Geopolitics and the Great Games, un’analisi affascinante e radicalmente nuova dell’offensiva imperialista che ha prima travolto il mondo, in ondate successive fra il XIX e XX secolo, e che sta oggi volgendo precipitosamente al termine.

L’espressione “Grande Gioco” è stata coniata nel XIX secolo e riflette il cinismo di statisti (e storici) non coinvolti personalmente nel caos da essi stessi creato. Essa indicava la rivalità fra Russia e Inghilterra, avente ad oggetto gli interessi in India. In realtà l’Inghilterra era impegnata a spiegare il suo gioco mortale su tutta l’Eurasia, dai Balcani e dalla Palestina sino alla Cina e al Sud-Est asiatico, indebolendo e dividendo stati “premoderni”, distruggendo le vite di centinaia di milioni di persone, con effetti che perdurano ancora oggi.

Radicata nell’illuminismo europeo, plasmata dalla cultura ebraica e da quella cristiana, economicamente fondata sul capitalismo industriale, la competizione intra-imperialistica ha reso l’intero globo zona di conflitto, non lasciando alcun territorio neutrale.

Il cataclisma della I Guerra Mondiale interruppe la prima parte del “gioco”, ma non segnò la definitiva conclusione dello stesso. Walberg riesuma la parola proibita “imperialismo” per analizzare attentamente tale fenomeno del quale – pur se formalmente ripudiato – si continua attualmente a seguire la logica e a causare gli stessi terribili costi umani. Ciò che l’autore definisce il II Grande Gioco comincia successivamente, con l’America che riunisce i suoi precedenti rivali imperiali in un gioco ancora più implacabile, finalizzato a distruggere il comune nemico rivoluzionario e potenziale nemesi: il comunismo. Avendo “vinto” questo gioco, l’America assieme al nuovo attore Israele – un prodotto dei primi giochi – ha cercato di fare un’unica trincea di quello che Walberg definisce “un impero e mezzo” nel campo di gioco ormai globale, avvalendosi di un’agenda neoliberale sostenuta dal dominio rapido (shock and awe).Con tratti agili e decisi, Walberg dipinge lo scontro fra dominazione e resistenza nel quadro globale, dove l’imperialismo combatte i suoi grandi sfidanti, comunismo ed islam, i quali ne costituiscono l’antidoto secolare e religioso.

Paul Atwood (War and Empire: The American Way of Life) ha definito l’opera una “epica correttiva”. Secondo Pepe Escobar (giornalista di Asia Times) si tratta di una “road map attentamente argomentata e, soprattutto, ‘cliché-distruttiva’ ”. A detta di John Bell (Capitalism and the Dialectic) essa è rigorosamente documentata e costituisce una “preziosa risorsa per capire come funziona l’imperialismo ed animare il dibattito sulla stessa teoria dell’imperialismo”.

Specializzato in Economia presso l’Università di Toronto, e successivamente a Cambridge, Walberg ha anche studiato e lavorato nell’allora Unione Sovietica, vivendone il collasso, e successivamente in Uzbekistan; attualmente scrive per il principale quotidiano del Cairo: Al Ahram.
Noto a livello internazionale come giornalista specializzato in Medio Oriente, Centro Asia e Russia, il suo proposito è quello di decostruire le tradizionali analisi occidentali con la loro pregiudiziale eurocentrica e di mostrare il XX secolo per come è stato vissuto dalle vittime dei giochi imperiali, più che non dai presunti vincitori, e di fornire al lettore gli strumenti necessari ad analizzare il gioco attuale nella sua evoluzione.

Walberg contribuisce regolarmente a Counterpunch, Dissident Voice, Global Research, Al-Jazeerah and Turkish Weekly ed è commentatore per l’emittente televisiva RT e quella radiofonica Voice of the Cape. I suoi articoli sono scritti generalmente in lingua russa e tradotti in spagnolo, italiano, tedesco e arabo e sono reperibili presso il suo sito web ericwalberg.com. Walberg ha fatto da moderatore e relatore al Leaders of Change Summit (http://www.istanbulwpf.org/) presso Istanbul nel 2011.

(Traduzione a cura di Giacomo Guarini)

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Ландшафты жизни. Путь итальянцев

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http://dergachev.ru/Landscapes-of-life/Italy/index.html

Ландшафты жизни. Путь итальянцев
Владимир Дергачев 15.07.2011
Итальянская Республика  является членом Евросоюза, НАТО и входит в клуб высокоразвитых государств «Большая семерка». В 2010 году  ВВП Италии составил свыше  $2 трлн по валютном курсу (7-е место в мире) и на душу населения — 33,8 тыс. (22 место).  В 1990 году российский ВВП был в два раза меньше ВВП Италии и равен ВВП Испании.
Население Италии в 2,3 раза меньше чем в России,  но экономическая мощь государств  сопоставима.  По данным МВФ В 2010 году ВВП Италии по паритету покупательной способности составил $1,8 трлн., а России — $2,2 трлн.  И соответственно  ВВП на душу населения в Италии почти в 2 раза выше, чем в России.

После Второй мировой войны наступило «итальянское экономическое чудо» (с середины 50-х до середины 70-х годов) и страна вошла в число мировых лидеров. Италия вошла в число  крупнейших производителей  и экспортёров на мировой рынок  автомобилей, тракторов, стиральных машин и холодильников, радиоэлектронной, химической  и продовольственной продукции.  Большую роль  сыграли государственные капиталовложения и кредиты, полученные по плану Маршалла, 35 % которых было выделено автомобильному концерну ФИАТ. Италия стала образцовой страной «неокапитализма», а автомобиль ФИАТ 500 — символом «экономического чуда». Мировой энергетический кризис 70-х годов привел к замедлению экономического роста, дальнейшим диспропорциям в развитии промышленного Севера и бедного аграрного Юга.
Парламентская республика установила своеобразный рекорд – за послевоенный период до 2005 года сменилось 59 правительств. По этому показателю к Италии близка самостийная Украина, правда, с противоположным результатом в экономике. Можно провести параллели смены авторитарных на демократические режимы в Италии и России. Если в Итальянской республике  эта смена привела к «экономическому чуду»,  то в России — к олигархическому капитализму и криминально-коррумпированной демократии при деградации  общества, экономики и провинции.

***
Итальянская геополитика. После объединения страны  к 1871 году Италия приступила к колониальной экспансии. До конца девятнадцатого столетия были аннексированы Эритрея и юг Сомали.
Итальянский писатель и журналист  Энрико Коррадини (1865 – 1931) основал в 1903 году во Флоренции журнал «Реньо» («Королевство»), выступавший за присоединение итальянских земель, находящихся под иноземным владычеством. В дальнейшем он стал одним из создателей Националистической партии. Термин «несоединенные земли» (лат., Terra irrеdепtа) дал названиедвижению за воссоединение разделенного народа («ирредентизм»). К несоединенным землям относились Тироль и побережье Адриатики (входившие в Австро-Венгрию), Корсика, Савойя, Ницца (Франция) и будущие колонии.  Коррадини, провозглашавший идеи «пролетарского национализма»,  поддержал приход Бенито Муссолини (1982 – 1945) к власти и стал членом фашистского правительства. Наиболее известные его труды «Дистанционное отечество» (1910) и «Дистанционная война» (1911). Под давлением националистов Италия в 1911 году захватила у Османской империи Ливию.
«Ирредентизм» стал главной геополитической доктриной Муссолини, который в 1912 году был назначен главным редактором  «Аванти!» — официального органа  социалистической партии Италии. Но после окончания Первой мировой войны посчитал, что  социалистическая доктрина потерпела крах. В 1919 году Муссолини организует в Милане «Итальянский союз борьбы», на основе которого в 1921 году была создана  Национальная фашистская партия.  В 1924 году она получила большинство  в парламенте и была правящей до 1943 года. В целях наведения порядка сильной рукой были созданы отряды чернорубашников, удалось ограничить активность мафии.  Поклонниками успешной социальной политики Муссолини были Махатма Ганди, Зигмунд Фрейд и Уинстон Черчилль, который в 20-ые годы называл дуче «величайшим из живущих законодателей».
После Первой мировой войны Италия получила Южный Тироль и большую часть Истрии. При фашистском правительстве Муссолини были захвачены Эфиопия (1936) и Албания. Муссолини официально объявил Италию империей.
При режиме Муссолини Италия превратилась в индустриально-аграрную страну с развитой социально инфраструктурой.  Социально-экономические программы правительства объявлялись «битвами» за  зерно, мелиорацию, национальную валюту, строительство автобанов, больниц,  спортивных арен и высокую рождаемость.  Принятая «Хартия труда» регулировала отношения государства и трудящихся, цены и заработную плату, забастовки были запрещены.
Итальянская геополитика  выступала за союз Италии с Германией, так как обе «запоздавшие  нации» не получили «место под солнцем» во время дележа колоний. Союз с Третьим Рейхом и участие на стороне с Германией  во Второй мировой войне привели в 1943 году к падению режима Муссолини и оккупации Италии германскими войсками. К 1945 году страна была освобождена американскими войсками и  повстанцами движения Сопротивления. По Парижскому мирному договору  1947 года Италия лишилась всех колоний.
После поражения во Второй мировой войне  Италия утратила геополитические амбиции.
В современной Италии издается геополитический журнал «Евразия», уделяющей особое внимание пропаганде евразийских идей —  «духовному единству» Евразии и новой геополитике (геоэкономике). Редактор журнала «Евразия» Тиберио Грациани отмечает отсутствие геополитической доктрины у современной Италии** и объясняет это принадлежностью Италии к американской зоне влияния, глубоким кризисом национальной идентичности и недостаточно развитым геополитическим мышления правящего класса.  Необходимость соблюдения положений Парижского мирного договора 1947 года  и двусмысленная  идеология конституционализма  породило «коллаборационистский реализм»  и отказ от ответственности за  собственную судьбу. Современная Италия не  имеет возможности реализовать свой геополитический потенциал из-за  членства в НАТО и вассальной зависимости от Соединённых Штатов,  поставок энергоресурсов и кризиса «социального государства».  Исторически главный геополитический вектор Италии был обращен к Средиземноморью и адриатико-балкано-дунайский регион. По мнению Грациани,  в формирующемся многополярном мире Италия  может усилить свою роль в Средиземноморье с опорой на Россию и Турцию и других единомышленников на Ближнем и Среднем Востоке (Сирия, Иран). Эта стратегия предусматривает выход Италии из-под опеки США. Возможен геополитический проект «Большое Средиземноморье», включающее Черноморе и Каспий на основе пакта Рим – Москва – Стамбул.

***

Мафиозный «брэнд» Италии — остров Сицилия. Тот, кто побывал на родине организованной преступности, несомненно,  был поражен отсутствием мелкого криминала. Можно без опасения для своего здоровья и кошелька гулять по ночному Палермо или другим городам Сицилии.

** Тиберио ГрацианиГеополитика республиканской Италии http://geopolitica.ru/Articles/1065

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Breivik, l’attentatore di Oslo. Un’ideologia identitaria ma non fondamentalista

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Fonte: “Cesnur

 

L’orribile tragedia di Oslo chiede anzitutto rispetto e preghiera per le vittime, quindi una riflessione sulle misure di vigilanza che anche società, come quelle scandinave, che tengono al loro carattere «aperto», oggi non possono mancare di adottare a fronte delle numerose e molteplici forme di terrorismo. Tra queste misure, però, non ci può e non ci dev’essere una stigmatizzazione dei «fondamentalisti cristiani», dipinti come criminali e potenziali terroristi. È veramente sfortunato che la polizia norvegese, subito ripresa dai media di tutto il mondo, abbia inizialmente presentato l’attentatore, Anders Behring Breivik, come un cristiano fondamentalista, e che in Italia alcuni media lo abbiano definito perfino – falsamente – un cattolico. 

L’incidente mostra semplicemente come oggi «fondamentalista» sia una parola usata in modo generico e impreciso per indicare chiunque abbia idee estremiste o genericamente «di destra», e un riferimento, anche se vago, al cristianesimo. Ne nasce facilmente il fenomeno sociale della «colpevolezza per associazione», per cui qualunque cristiano che sia, per esempio, contro l’aborto o il riconoscimento delle unioni omosessuali diventa un fondamentalista e, dal momento che l’attentato di Oslo è stato attribuito a un adepto del fondamentalismo, anche un potenziale terrorista. Proprio pochi giorni prima dell’attentato di Oslo l’Osservatorio sull’Intolleranza e la Discriminazione contro i Cristiani di Vienna aveva inviato ai responsabili del progetto RELIGARE, un’indagine sull’Europa multireligiosa finanziata dalla Commissione Europea, un corposo memorandum sui pericoli di un uso del termine «fondamentalismo» che diventa strumento di discriminazione anticristiana.

L’espressione «cristiano fondamentalista», beninteso, ha un significato preciso. Risale alla pubblicazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1915degli opuscoli The Fundamentals, una critica militante delle teologie protestanti liberali, del metodo storico-critico nell’interpretazione della Bibbia e dell’evoluzionismo biologico. Un fondamentalista è un protestante – di solito, tra l’altro, molto anti-cattolico – che insiste sull’interpretazione letterale e tradizionale della Bibbia, rifiutando qualunque approccio ermeneutico che tenga conto delle scienze umane moderne, e da questa interpretazione deduce principi teologici e morali ultra-conservatori.

Anders Behring Breivik non è un fondamentalista. Possiamo sapere parecchie cose delle sue idee dal suo profilo su Facebook – cancellato, ma non prima che qualcuno lo avesse salvato e messo online –, da oltre sessanta pagine d’interventi sul sito anti-islamico norvegese document.no, disponibili anche in lingua inglese e soprattutto dal suo libro di 1.500 pagine 2083 – Una dichiarazione d’indipendenza europea, firmato «Andrew Berwick», mandato a una serie di amici e di giornali il 22 luglio, a poche ore dalla strage, e postato su Internet il 23 luglio da Kevin Slaughter, un ministro ordinato nella Chiesa di Satana fondata in California da Anton Szandor LaVey (1930-1997), che ha oggi nel mondo il numero maggiore di adepti in Scandinavia.

Già dalla sua pagina di Facebook, emerge come un interesse principale di Breivik sia costituito dalla massoneria. Chi visitava il profilo di Breivik su Facebook era colpito da una fotografia che lo rappresenta con tanto di grembiulino massonico come un membro di una loggia di San Giovanni, cioè di una delle logge che amministrano i primi tre gradi nell’Ordine Norvegese dei Massoni, la massoneria regolare della Norvegia. Breivik fa parte della Søilene, una delle logge di San Giovanni di Oslo di questo Ordine, che naturalmente non ha di per sé niente a che fare con l’attentato. Queste logge praticano il cosiddetto rito svedese, che richiede ai membri la fede cristiana. Ma nessun fondamentalista protestante diffonderebbe sue fotografie in tenuta massonica: il fondamentalismo, al contrario, è fortemente ostile alla massoneria. Né si tratta di un interesse del passato: la fotografia è stata postata nel 2011 e ancora nel 2009 su document.no Breivik proponeva una raccolta di fondi «nella mia loggia».

Aggiungiamo che anche la passione di Breivik per il gioco di ruolo online World of Warcraft e per una serie televisiva di vampiri piuttosto scollacciata, Blood Ties, nonché la dichiarata amicizia per il gestore del principale sito pornografico norvegese, «nonostante la sua morale sfilacciata» – per non parlare del fatto che uno dei destinatari del suo memoriale è un satanista –, sono tutti tratti che sarebbero assurdi per un cristiano fondamentalista. I toni ricordano semmai Pim Fortuyn (1948-2002), l’uomo politico omosessuale olandese fondatore di un movimento populista anti-islamico. Se una parte del libro apprezza la famiglia tradizionale, altrove Breivik dichiara di considerare ammissibile l’aborto – sia pure in un numero limitato di casi – e rivela anche di «avere messo da parte duemila euro che intendo spendere per una escort di alta qualità, una vera modella, una settimana prima dell’esecuzione della mia missione [terroristica]».

I testi – che rivelano ampie anche se disordinate letture – non appaiono quelli di un semplice folle, anche se ci sono tratti di megalomania e contraddizioni evidenti. L’interesse principale di Breivik non è la religione, ma la lotta all’islam che rischia, a suo dire, di sommergere l’Europa – e tanto più un Paese piccolo come la Norvegia – con l’immigrazione. Queste idee non sono, naturalmente, particolarmente originali – e alcuni degli autori che Breivik cita, e di cui propone nel libro 2083 una sorta di lunga antologia, sono del tutto rispettabili –, ma la tesi è declinata con toni che talora diventano razzisti e paranoici.

Lo scopo primo di Breivik è fermare l’islam – di qui la sua avversione per il governo norvegese, percepito come favorevole a un’indiscriminata immigrazione islamica –, e per questo cerca alleati dovunque. Racconta di avere scelto volontariamente di essere battezzato e cresimato nella Chiesa Luterana norvegese a quindici anni – la famiglia, ricca e agnostica, gli aveva lasciato libera scelta – ma  di essersi convinto che le comunità protestanti sono ormai morte e hanno ceduto alle ideologie multiculturaliste e filo-islamiche. In un primo momento, scrive, i protestanti dovrebbero confluire nella Chiesa Cattolica. Ma anche la Chiesa Cattolica si è ormai venduta all’islam quando l’attuale Pontefice ha deciso di continuare il dialogo interreligioso con i musulmani. Breivik minaccia Benedetto XVI, scrivendo che «ha abbandonato il cristianesimo e i cristiani europei e dev’essere considerato un Papa codardo, incompetente, corrotto e illegittimo». Una volta eliminati i protestanti e il Papa, potrà essere organizzato un «Grande Congresso Cristiano Europeo» da cui nascerà una «Chiesa Europea» completamente nuova, identitaria e anti-islamica.

Se Breivik ha un nemico, l’islam, ha anche un amico – immaginario, perché non sembra ci siano stati grandi contatti diretti –: il mondo ebraico, che considera il più sicuro baluardo anti-musulmano. Il terrorista mostra un vero culto per lo Stato d’Israele e per le sue forze militari, cui corrisponde una viva avversione per il nazismo. «Se c’è una figura che odio – scrive – è Adolf Hitler [1889-1945»: e fantastica di viaggi nel tempo per andare nel passato e ucciderlo. È vero che s’iscrive a un forum Internet di neo-nazisti, ma lo fa per cercare di convincerli che, se alcune idee del führer sul primato etnico degli occidentali erano giuste, l’errore clamoroso è stato non capire che gli occidentali più puri e nobili sono gli ebrei, e che se avesse voluto sterminare qualcuno il nazismo avrebbe dovuto piuttosto andare a prendere i musulmani nel Medio Oriente.

Un riferimento frequente è del resto all’inglese English Defence League – con cui sembra ci siano stati anche contatti diretti –, un movimento anti-islamico «di strada» che è regolarmente accusato di essere razzista e altrettanto regolarmente contesta questa accusa e critica il neo-nazismo. Breivik scrive che il multiculturalismo è una forma di razzismo e che «non si può combattere il razzismo con il razzismo». Il nazismo, il comunismo e l’islam sono per Breivik tre volti della stessa dottrina anti-occidentale, e tutti e tre andrebbero messi fuorilegge. Ma l’enfasi è sempre sulla lotta all’islam. Chiunque sia nemico, attuale o potenziale, dei musulmani diventa un possibile alleato: così gli atei militanti, piuttosto diffusi in Norvegia, che Breivik invita a combattere l’islam e non solo il cristianesimo; così gli omosessuali, cui fa presente che in un mondo dominato dai musulmani saranno perseguitati.

Non è sorprendente neppure il contatto con la Chiesa di Satana, che predica una forma di satanismo «razionalista» che inneggia al predominio dei forti sui deboli e alle virtù del capitalismo selvaggio secondo le teorie della scrittrice americana Ayn Rand (1905-1982), citata spesso anche dal terrorista, e che in Scandinavia se la prende volentieri con gli immigrati. Perfino i rom, secondo Breivik, sarebbero stati resi schiavi in India e ridotti alla loro attuale misera condizione non da popolazioni indù – come insegna la storiografia maggioritaria – ma da musulmani. Pertanto – un altro tratto che lo distingue da molta estrema destra europea – Breivik si mostra piuttosto favorevole ai rom, li incita a combattere l’islam e promette loro nella sua nuova Europa perfino uno Stato libero e indipendente.

Un tono «religioso» si può ritrovare semmai nelle sue ferventi difese degli ebrei e dello Stato d’Israele. Questo è un tema che emerge anche in qualche gruppo protestante fondamentalista – sulla base dell’idea che Israele sia uno Stato voluto da Dio in vista della fine del mondo – ma gli accenti di Breivik sono diversi. Anche se mancano riferimenti diretti, ricordano irresistibilmente l’ideologia anglo-israelita, nata nel secolo XIX in Gran Bretagna e molto diffusa in Scandinavia, specie negli ambienti massonici, secondo cui gli abitanti del Nord Europa sono anche loro «ebrei», discendenti delle tribù perdute d’Israle: il nome «danesi», per esempio, indicherebbe la tribù di Dan. Il movimento anglo-israelita si è scisso nel secolo XX in due tronconi. Quello maggioritario, talora violento e responsabile di attentati negli Stati Uniti, sostiene che gli europei del Nord sono oggi i soli «ebrei» autentici. Quelli che si fanno chiamare ebrei, in Israele e altrove, non sono tali etnicamente, giacché sarebbero in maggioranza khazari, membri di una tribù centro-asiatica convertita all’ebraismo nei secoli VIII e IX. Di qui un’avversione del «movimento dell’identità» di origini anglo-israelite contro Israele e i suoi legami con gruppi antisemiti e neo-nazisti.

Ma – se questo filone dell’anglo-israelismo domina negli Stati Uniti – nel Nord Europa è ancora presente un filone più antico, per cui gli ebrei così come oggi li conosciamo sono veri eredi della tribù di Giuda, in attesa di ricongiungersi con i fratelli anglosassoni e scandinavi delle tribù perdute. Chi mantiene questa visione considera dunque i nord-europei fratelli degli ebrei e, ben lungi dall’essere antisemita, difende in modo molto acceso l’ebraismo e lo Stato d’Israele.

Secondo il suo libro, il terrorista nel 2002 avrebbe fondato con altri a Londra un ordine neo-templare che si affianca ai tanti che già esistono, i Poveri Commilitoni di Cristo del Tempio di Salomone (PCCTS), ispirato non solo ai templari cattolici del Medioevo ma soprattutto ai gradi templari della massoneria – un’organizzazione di cui Breivik cui loda il «ruolo essenziale nella società», pur considerandola incapace di passare alla necessaria azione militare – e aperto a «cristiani, cristiani agnostici e atei cristiani», cioè a tutti coloro che riconoscono l’importanza delle radici culturali cristiane, «ma anche di quelle ebraiche e illuministe» nonché «nordiche e pagane», per opporsi ai veri nemici che sono l’islam e l’immigrazione.

Tra questi riferimenti eclettici, il cristianesimo non è dominante. Cita moltissimi autori, ma il suo padre spirituale è l’anonimo blogger norvegese anti-islamico «Fjordman», che nel 2005 aveva un milione di lettori ma che chiuse il suo blog senza essere mai identificato. Breivik ripubblica un suo scritto secondo cui dopo il Medioevo il cristianesimo – i cui unici aspetti positivi erano di origine pagana –  è diventato per l’Europa «una minaccia peggiore del marxismo».

I «giustizieri templari» di Breivik dovrebbero operare in tre fasi di «guerra civile europea». Nella prima (1999-2030) dovrebbero risvegliare la coscienza addormentata degli europei mediante «attacchi shock di cellule clandestine», scatenando «gruppi di individui che usano il terrore»: gruppi piccoli, anche di una o due persone. Nella seconda (2030-2070) si dovrebbe passare alla guerriglia armata e ai colpi di Stato. Nella terza (2070-2083), alla vera guerra contro gli immigrati musulmani. Breivik è consapevole che gli attacchi della prima fase trasformeranno coloro che li compiranno in terroristi odiati da tutti: ma questa è la forma di «martirio templare» cui si dice disposto.

Obiettivi degli «attacchi shock» sono i partiti politici: i laburisti norvegesi anzitutto, ma sono segnalati anche quattro partiti italiani (PDL, PD, IDV, UDC) che boicotterebbero in modo diverso la guerra all’islam e all’immigrazione. In Italia ci sarebbero sessantamila «traditori» da colpire, anche attraverso attacchi alle raffinerie per sconvolgere l’assetto energetico italiano. Sedici raffinerie italiane, da Trecate (Novara) a Milazzo, sono indicate come obiettivi strategici. Anche su Papa Benedetto XVI ci sono frasi minacciose. Sempre secondo il libro 2083, il numero di potenziali simpatizzanti italiani sarebbe pure di sessantamila: ma questi non si troverebbero né nella Lega né ne La Destra, che Breivik ha esaminato ritenendo le loro critiche anti-immigrazione troppo timide e dunque alla fine «controproducenti». Poiché ne sono uno dei Rappresentanti, mi inquieta anche la riproduzione di un articolo che indica l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) come un organismo internazionale particolarmente filo-islamico e pericoloso.

La domanda forse più importante è se quando Breivik riferisce che il suo ordine di giustizieri templari conta membri in vari Paesi europei ed è in contatto con quelli che il mondo chiama «criminali di guerra» serbi seguaci di Radovan Karadzic, che per lui invece sono eroi che hanno cercato di liberare i Balcani dall’islam, sta scrivendo un romanzo nello stile dello svedese Stieg Larsson (1954-2004) o descrivendo una realtà. Altri particolari autobiografici del libro che sembravano improbabili – la presenza nella sua famiglia di diplomatici, la frequentazione da ragazzo di scuole di élite – sono stati confermati dalla polizia norvegese. La stessa polizia dovrà verificare se la nascita dell’ordine neo-templare, i contatti con i criminali di guerra serbi e un viaggio in Liberia per farsi addestrare da  uno di loro, «uno dei più grandi eroi europei», prima di fondare l’ordine con otto compagni a Londra nel 2002 sono frammenti dell’immaginazione di Breivik o episodi realmente accaduti. Quello che è certo è che un buon terzo del suo libro – un vero e proprio manuale del terrorista, corredato da un diario sulla preparazione dell’attentato – rivela dettagliate conoscenze in materia di armi, esplosivi, la nuova tecnica terroristica chiamata «open source warfare», che può essere messa in opera anche da gruppi piccolissimi, e l’abbigliamento antiproiettile – calzini compresi, dettaglio spesso trascurato e cui Breivik dedica parecchie pagine – difficili da ottenere, anche se Internet fa miracoli, da parte di qualcuno che non ha fatto neppure il servizio militare.

Breivik scrive sempre in tono paranoico. Ma – se vogliamo, come si dice, trovare un metodo nella sua follia – dobbiamo cercarne il filo conduttore principale in un populismo anti-islamico che finora aveva conosciuto raramente forme violente, e uno secondario in una solidarietà pressoché mistica fra l’identità nordica e quella ebraica e israeliana, che ha le sue radici in antiche teorie esoteriche e massoniche di cui Breivik è un cultore. L’unica cosa certa è che il cristianesimo – «fondamentalista» o no – c’entra ben poco, se non come uno fra i tanti improbabili alleati che il terrorista immaginava di reclutare per la sua battaglia violenta contro l’immigrazione islamica.

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Egitto vs FMI: tempo di inadempienza?

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Fonte: “Global Research

 

 

 

L’inversione finanziaria del governo rivoluzionario egiziano, che dapprima ha richiesto e poi rifiutato un prestito del FMI da 3 miliardi di $, evidenzia le difficili scelte dell’Egitto in questo momento della rivoluzione ma si tratta di un segnale positivo.

 

Non è un segreto che l’Egitto abbia riposto tutta la sua fiducia negli USA e nelle istituzioni occidentali fin dal tempo del presidente Anwar Sadat, contraendo un forte debito estero, un processo che è stato sempre più corrotto, nonostante l’attenta osservazione proprio da parte di queste istituzioni. Tale debito è finanziato da banche straniere e deve essere ripagato in dollari, più gli interessi. Se la maggior parte del denaro che queste producono e poi “prestano” è convogliato verso conti presso banche svizzere, il problema è dell’Egitto. Nessuno cerca di accusare le persone che hanno dato i loro soldi a Mubarak, o ai suoi scagnozzi, per poi lasciare che questi lo depositassero nuovamente presso le stesse banche, ma bisogna essere in due per ballare il tango.

Sia che una parte dei soldi aiuti o meno effettivamente gli “Ahmed qualunque”, gli egiziani saranno ritenuti responsabili dell’intero debito e lo stesso popolo deve conformarsi ai programmi di aggiustamento del FMI, che includono la privatizzazione, la deregolamentazione, la tassazione regressiva, la fine dei sussidi per i poveri e molti altri provvedimenti sgraditi.

La rivoluzione egiziana ha temporaneamente scosso il soddisfacimento di questo scenario diabolico. L’esplosione, sotto il peso della miseria che questo sistema ha prodotto, ha colto i banchieri occidentali di sorpresa, i quali si sono affrettati ad abbracciare e cooptare la rivoluzione quando si sono resi conto che era inevitabile. Il tutto è culminato nell’offerta del FMI di un prestito per coprire il grosso disavanzo nel bilancio post-rivoluzionario dell’Egitto, che raddoppierà i salari più bassi, migliorerà i servizi sociali e introdurrà una tassa progressiva sul reddito.

Questo gesto di insolita generosità del FMI (un tasso di interesse basso e apparentemente senza alcun vincolo) era in realtà volto ad evitare che l’Egitto si allontanasse dal gregge, come altri paesi hanno fatto in passato in situazioni simili. Ciò è stato visto con entusiasmo dalla elite egiziana, in gran parte istruita sui segreti della teoria monetaria nelle università americane. Altrimenti l’Egitto sarebbe stato da considerare inadempiente, ha detto Hani Genena, economista senior alla Pharos Holding for Investments, al settimanale Al-Ahram Weekly. Questo è esattamente ciò che hanno fatto in passato paesi come Russia, Argentina ed Ecuador.

 

L’Alto Consiglio delle Forze Armate, il governo de facto in Egitto, non è rimasto colpito dalle assicurazioni che il prestito fosse “incondizionato” e il Generale Sameh Sadeq ha detto al governo di cancellare il prestito, con le sue “cinque condizioni che andavano completamente contro i principi della sovranità nazionale”, che peserebbe sulle future generazioni. Il ministro delle finanze Samir Radwan ha obbedito e ha rapidamente negoziato finanziamenti col Qatar e l’Arabia Saudita (paesi con i propri piani segreti per la rivoluzione egiziana) per colmare il vuoto restante. L’amante respinto, il FMI, e la sua compagna, la Banca Mondiale, non erano contenti. L’ultima ha detto di dover “rivedere” i suoi piani finanziari per l’Egitto.

Appena la notizia relativa alla querelle sul prestito è trapelata i senatori americani John McCain, Joe Lieberman e John Kerry si sono recati al Cairo per offrire il loro apporto alla rivoluzione: un atto congressuale per creare fondi economici assistenziali per l’Egitto e la Tunisia. Ricordiamo lo slogan per la campagna presidenziale di McCain “Bomb, bomb, bomb Iran” nonché il supporto suo e di Lieberman ad Israele. La loro visita ha solo confermato ai leader militari egiziani la necessità di tenere a distanza il FMI e i suoi scagnozzi.

Un altro visitatore al Cairo la scorsa settimana è stato Mahatir Mohamed, che ha trasformato la Malesia in una potenza economica dopo averla liberata dal suo passato coloniale. Quando la sua “tiger economy” (economia caratterizzata da una rapida crescita, ndt) è stata sabotata da speculatori nel 1997 egli fermò la fuga dalla moneta malese e stabilizzò l’economia senza presentarsi col cappello in mano al FMI e la Malesia è sopravvissuta alla crisi molto meglio di altre potenze asiatiche che hanno ceduto alle pressioni del FMI. «I malesi hanno rifiutato l’assistenza del FMI e della Banca Mondiale perché volevamo che le nostre decisioni economiche fossero indipendenti» ha detto orgogliosamente al Cairo questa settimana – musica per le orecchie del Feldmaresciallo Mohamed Tantawi.

 

Difatti, molti osservatori sono convinti che la decisione dell’esercito sia stata una reazione alla stessa rabbia popolare e all’orgoglio nazionale che a quel tempo hanno consentito a Mahatir di sconfiggere con successo i banchieri. «Ho sentito un moto d’orgoglio quando ho saputo che il prestito era stato rifiutato» ha detto al Weekly l’impiegato dell’Università del Cairo Mohamed Shaban. Gli egiziani comprendono il principio di Mayer Rothschild : “Datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi interesserà chi farà le sue leggi”. Anche i leader militari egiziani lo capiscono.

Il processo di richiesta ai riluttanti centri finanziari di Zurigo e Londra per recuperare nel miglior modo possibile la piccola frazione di miliardi rubati che sono stati nascosti all’estero e che sono responsabili di un’enorme parte del debito estero egiziano richiederà anni e servirà a poco, se non a produrre enormi costi legali, come insegna l’esperienza di Filippine e Indonesia.

 

L’Egitto infatti potrebbe rifiutarsi di pagare quello che in gergo finanziario si chiama “debito odioso”, cioè il debito nazionale contratto da un regime per scopi che non servono gli interessi della nazione. Gli USA lo hanno fatto per cancellare il debito iracheno nel 2003. L’Ecuador lo ha fatto nel 2009. L’ultimo (diversamente dagli USA in Iraq) addirittura in osservanza delle leggi internazionali. I cittadini greci hanno già formato un Comitato di verifica per stabilire quale parte del debito sia odiosa o altrimenti illegittima.

Ma una mossa così radicale attirerebbe l’ira collettiva dell’elite finanziaria mondiale sull’Egitto e non è una scelta semplice. Non esiste più un’Unione Sovietica alla quale appoggiarsi, come al tempo di Nasser, quando questi osò sfidare la monarchia.

 

Ma nemmeno c’è alcun bisogno di lasciare il deficit finanziario egiziano in balia di un’elite di banchieri mondiali. Una volta che il governo avrà realizzato che la moneta è solo una convenzione, qualcosa che può usare responsabilmente per oliare gli ingranaggi dell’economia, per generare lavoro e reddito, usando il benessere della nazione per il popolo, potrà responsabilmente creare il denaro di cui ha bisogno, mantenendo l’occhio vigile su ciò che aumenterà la produzione e il benessere senza fare troppa pressione sui prezzi. La tassazione restituisce i soldi che il governo in effetti ha prestato a sé stesso senza interessi.

 

Michael Hudson, Presidente dell’Istituto per gli Studi sulle tendenze economiche di lungo periodo e consigliere dei governi russo, giapponese e islandese, ha detto al Weekly che l’Egitto ha una scelta molto più ampia rispetto ai governi occidentali nel perseguire una riforma economico-finanziaria indipendente, poiché possiede ancora delle banche commerciali nazionali. Potrebbe costituire un “Fondo di Recupero per la Rivoluzione” senza bisogno di chiedere prestiti a nessuno, usando i milioni di disoccupati egiziani – una forza che può smuovere montagne – come garanzia collaterale, per creare lavori che ricompenserebbero automaticamente gli investimenti del governo con nuovo reddito e maggiori introiti.

 

L’idea di riportare in vita la Toshka ridistribuendo la terra ai contadini e fornendo loro un capitale iniziale è un perfetto esempio di quello che deve essere fatto. Non c’è ragione di prendere in prestito questo denaro, specialmente da altri paesi, e ancor peggio pagare loro gli interessi. Dopo tutto, l’investimento nel futuro del paese dovrebbe essere ugualmente ripartito tra chi presta e chi prende in prestito, così come prevede la legge della sharia.

I soci di Hudson presso Centro per la piena occupazione e la stabilità dei prezzi, il Levy Economics Institute e il Centro per la piena occupazione e l’equità stanno preparando un rapporto per la Banca Asiatica per lo Sviluppo sulle politiche monetarie e fiscali alternative per promuovere la piena occupazione e la stabilità dei prezzi senza fare affidamento sui finanziamenti del FMI o della Banca Mondiale.

(Traduzione di Lomè Galliano)

 

* Eric Walberg scrive per Al-Ahram Weekly http://weekly.ahram.org.eg/

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Stop Export. Verso la guerra delle risorse?

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Fonte: “Megachip

 

Piccolo ma significativo esempio di come le notizie importanti non vengono date o, quando vengono date, sono nascoste in modo che non si vedano. Per esempio non mi risulta che alcun giornale italiano, per non parlare dei telegiornali, abbia dato rilievo alle cose che seguono. Recentemente il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio – uno dei tre membri della sacra autorità del Consenso Washingtoniano, insieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale – ha pubblicato un rapporto speciale il cui titolo tecnico è apparentemente anodino e concerne le restrizioni alle esportazioni. Da questo emerge che ben 30 nuove restrizioni sono sorte, in diversi paesi, che impediscono o limitano l’esportazione di determinate materie prime. E si tratta di materie prime in quasi tutti i casi cruciali: generi alimentari, carbone, minerali di ferro, terre rare.

Le cifre dicono che tra ottobre 2010 e aprile 2011 i casi sono arrivati a 30 e si va da aumenti delle tasse di esportazione, fissazioni di prezzi fuori mercato, limitazioni di quote, veri e propri divieti completi. Protagonisti in questa svolta sono la Cina, l’India, il Vietnam l’Indonesia. Ma anche gli Stati Uniti praticano questi metodi avendo imposto restrizioni su una decina di materie prime che ritengono strategiche.

Il punto è proprio questo. Che queste limitazioni non rispondono a criteri economici di corto respiro e sono invece, in molti casi, frutto di considerazioni strategiche. La Cina, ad esempio, controlla circa il 97% delle esportazioni mondiali di terre rare (che sono un elenco di materie prime tutte variamente collegate alla produzione di raffinate tecnologie della comunicazione).

Ovvio che, trovandosi in una posizione quasi monopolistica, la Cina sia in condizione di imporre i suoi prezzi. Cosa che ha fatto tranquillamente fino all’anno scorso. Ma da due anni la Cina non sembra interessata a guadagnare, anche dilapidando le sue risorse preziose. Adesso se le vuole tenere.

Il perchè è presto detto, ma nemmeno uno dei pochissimi giornali del mondo che ha commentato la notizia, l’International Herald Tribune (IHT, 21 luglio), è stato capace di spiegarlo propriamente. In un breve articolo in pagine interne si è limitato a individuare l’egoismo dei paesi del terzo mondo. Ma con spiegazioni di questo tipo non si va lontano. Perchè oggi, improvvisamente?

È cominciata l’epoca della penuria. Per generi di consumo generale, come il petrolio, il “picco” è già stato raggiunto da almeno quattro anni (cioè se ne produce sempre meno e se ne produrrà sempre meno), ma nessuno lo dice per evitare il panico e il contingentamento. Delle terre rare nessuno parla perchè quasi nessuno sa cosa sono e a che cosa servono.

Ma i governanti di Pechino, come è bene non stancarsi di dire, guardano lontano. E cominciano a preferire di risparmiare piuttosto che guadagnare vendendo, perchè quando non ce ne sarà più sarà molto più difficile crescere.

Ecco il punto: è cominciata, in sordina per ora, la guerra delle risorse.

Basta capirlo per prevedere che alle piccole onde attuali seguiranno i marosi nei prossimi anni.

Il signor Patra, capo della società indiana “Terre Rare” – citato appunto da IHT – dice: «per molto tempo l’Occidente ha preso le risorse naturali a basso prezzo dall’Est. In futuro non sarà più così». Perentorio e soprattutto vero. A quelli che, ignorando i sintomi del problema, continuano a biascicare le giaculatorie della crescita, queste notizie bisognerebbe squadernargliele davanti al naso. Ma chi investirebbe se sapesse come stanno davvero le cose?

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Il sottosuolo polacco: la nuova scacchiera energetica

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Dipendenti dagli approvvigionamenti di idrocarburi provenienti dalla Russia, i paesi dell’Europa Orientale si sono sentiti sotto scacco per parecchi anni dalla fine della Guerra fredda. Con la scoperta di immensi giacimenti di gas non convenzionale estraibile tramite la frattura idraulica di scisti, alcuni paesi celebrano con euforia la fine della dipendenza energetica – e politica – da Mosca. Probabilmente tali festeggiamenti, dei quali beneficia anche il mercato finanziario dell’energia e il flusso di investimenti esteri, sono giustificati più da auspici che da certezze. L’Unione Europea ha scelto una politica attendista sulla regolamentazione dell’estrazione di gas non convenzionale, mentre le organizzazioni ambientaliste si battono per il divieto della pratica, c.d. fracking, anche sull’onda del successo del movimento anti-nucleare dopo l’incidente di Fukushima. Lo shale gas potrebbe cambiare le carte in tavola nel gioco geopolitico tra Bruxelles, Mosca e Washington, ma solo qualora le profezie annunciate si avverino. 

 

L’eredità della Guerra fredda

La Guerra fredda sembra ormai lontana a coloro che oggi si affacciano agli studi di geopolitica, ma rappresenta e continuerà a rappresentare un importante strumento analitico per l’esame della politica energetica dei molti Stati che vi furono coinvolti.

L’eredità sovietica dei condotti di gas naturale e petrolio e della “specializzazione economica” degli Stati membri dell’Unione e del Patto di Varsavia ha causato forti sbilanciamenti nella capacità di alcuni di essi di esercitare la loro indipendenza a livello internazionale, soprattutto per quanto riguarda la necessità di assicurare un adeguato approvvigionamento energetico ai propri cittadini.

Gasdotti e oleodotti della vecchia rete sovietica sono ancora in funzione e trasportano ingenti quantità di idrocarburi verso Ovest, dai campi siberiani e caucasici. Gas e petrolio russi – o trasportati via Russia – continuano ad essere la sola fonte di approvvigionamento degli ex-satelliti che oggi sono membri effettivi dell’Unione Europea. Quindi, molti Stati che si trovavano a Est della cortina di ferro sono ancora dipendenti dagli idrocarburi russi per circa l’80% della loro domanda. Tuttavia, il filo che lega questi paesi con Mosca e Bruxelles si allunga fino a Washington, dal momento in cui si è scoperto l’alto potenziale estrattivo proprio all’interno degli Stati dell’Europa orientale.

 

Shale gas negli USA

Da circa mezzo secolo, soprattutto negli Stati Uniti, le compagnie petrolifere hanno sviluppato un metodo per estrarre gas naturale dalla scissione di minerali sotterranei (c.d. “gas di scisto” o shale gas). La procedura attraverso la quale si “libera” il gas è chiamata “fracking” e consiste nel frantumare sedimenti rocciosi grazie al pompaggio ad alta pressione di acqua e agenti chimici nel sottosuolo. Il lungo corso di questa pratica in Nordamerica permette oggi agli esperti di energia, e ai lobbisti del settore come T. Boone Pickens di BP Capital Management[i], di assicurare la sua compatibilità con il rispetto dell’ambiente e delle falde acquifere, nonostante le controprove portate alla luce da movimenti ambientalisti e dalle commissioni nominate dal Dipartimento di Energia.

Già dal 2009, le potenzialità del mercato europeo per lo shale gas erano discusse negli Stati Uniti. Agli inizi del 2010 si parlava della possibilità di abbinare shale gas e “rinascimento nucleare” per favorire l’indipendenza energetica dell’Est Europa dalla Russia. Al clima post-ideologico di queste iniziative si aggiunge la forza del mercato. Infatti molte società statunitensi (Chevron, Exxon, Halliburton) guardano al bacino Est Europeo come a un importante destinazione per i loro investimenti. Conseguentemente preferiscono che la politica energetica di questi paesi, così tanto legata alla politica economica e alla legislazione sugli investimenti esteri degli Stati, sia più indipendente e diversificata e non debba essere soggetta alla volontà russa di “aprire o chiudere il rubinetto”, così come alcuni giornalisti hanno descritto le crisi russo-ucraine degli inverni del 2006 e 2009.

L’attività di pressione sul governo statunitense da parte di tali compagnie diventa un caso esemplare, perché testimonia l’urgenza e la necessità per gli Stati di intervenire nel proprio sottosuolo per far fronte alla esponenziale decrescita delle riserve convenzionali. L’Unione Europea ha da sempre visto con sospetto l’estrazione del gas non convenzionale (altro nome per lo shale gas), vista la mancanza di dati certi sul suo impatto ambientale, lasciando sinora  la discrezionalità agli Stati membri. Ciascuno di questi ha portato avanti scelte di politica energetica nazionale (o guidata dalle compagnie petrolifere nazionali) compatibili con il mix energetico interno e con lo status quo sul mercato.

 

Le peculiarità del caso analizzato

La Polonia, in questo contesto, presenta caratteristiche interessanti per comprendere fino a che punto l’interesse statunitense potrebbe essere soddisfatto. Recentemente il potenziale energetico polacco è stato affiancato a quello di Norvegia, Qatar e Turkmenistan in diverse occasioni dai giornalisti[ii].

L’eredità energetica sovietica ha nel tempo causato modifiche radicali al comportamento regionale della Polonia, come a quello di altri paesi dell’Europa Orientale. I crescenti – e inefficienti – consumi, affiancati dal rapido depauperamento dei giacimenti di idrocarburi esistenti hanno reso sempre più indispensabili gli approvvigionamenti provenienti dalla Russia, gli unici che sfruttano la ben ramificata rete di condotti dell’epoca sovietica (Druzhba, Yamal). Tutt’altro che rassicurato dalla immanenza di tali pipelines, il governo di Varsavia ritiene che la dipendenza da Mosca sia una minaccia silente alla sovranità nazionale. Non mantenere il pieno controllo delle forniture energetiche per i propri cittadini e lasciare gli accordi e il diritto di prima mossa al giocatore “a monte” del flusso di petrolio e gas limita l’indipendenza e l’autonomia decisionale dei paesi “a valle”, per i quali non esiste un’alternativa credibile.

L’alternativa potrebbe essere rappresentata dal gas di scisto, che modificherebbe completamente l’assetto energetico e geopolitico della regione. Nel caso in cui Polonia e altri Stati europei riuscissero a ottenere l’autosufficienza energetica (tanto auspicata quanto improbabile), Mosca, Bruxelles e Washington dovrebbero riconfigurare le proprie relazioni con questi paesi e cambiare il registro della dialettica politica che fino ad oggi avevano incentrato sulle questioni energetiche.

L’atteggiamento combattivo (bullish) delle compagnie energetiche statunitensi sulle previsioni estrattive in Europa confermano la recente coincidenza tra politica estera del governo USA e le iniziative di investimento delle maggiori compagnie petrolifere. Queste ultime temono crescenti difficoltà nell’estrazione e produzione di petrolio, gas naturale e carbone dovute sia all’esaurimento di queste risorse convenzionali, sia alle politiche ambientaliste di molti governi, tra cui l’Unione Europea. Proprio per ridurre la dipendenza dal gas naturale importato (dal 66% per la Polonia, al 92% per la Bulgaria) di molti Stati membri, l’UE, imbarazzata dalle difficoltà che le politiche sulle rinnovabili hanno incontrato, non ha opposto alcuna resistenza o regolamentazione per lo sfruttamento del gas di scisto. Negli ultimi anni, anche grazie all’assenza di labirinti burocratici, le esplorazioni preliminari hanno dimostrato un alto potenziale sia di volumi, sia di fattibilità estrattiva in molti paesi europei.

In particolare, la Polonia riuscirebbe ad essere completamente indipendente per centinaia di anni se riuscisse ad estrarre l’intera quantità prevista, che ammonta a 5.295 miliardi di metri cubi[iii] (bcm) – le medie di consumo degli ultimi anni si sono invece attestate a 14 bcm all’anno.

 

Mix energetico e geopolitica

Il profilo energetico polacco, un tempo causa di forti preoccupazioni, conferisce oggi una sicurezza politica ed economica quasi euforica, data l’approvazione sia implicita che esplicita di UE e USA sullo sfruttamento dello shale gas.

In Polonia, tre enormi bacini sono sotto esame da parte di importanti multinazionali energetiche (Chevron, Halliburton, Exxon). Un recente studio dell’AIE ne ha sottolineato l’alto potenziale, nonostante la profondità quasi proibitiva di alcuni giacimenti (soprattutto quello Baltico, che detiene i due terzi del totale previsto). Il corridoio orientale dello shale gas polacco permetterebbe di azzerare la domanda per gas naturale importato. Varsavia potrebbe dunque avvalersi del semestre alla presidenza al Consiglio dell’UE per far entrare l’estrazione di gas non convenzionale nella consuetudine europea, esercitando forti pressioni sulla comunità degli Stati membri. Grazie agli ultimi sviluppi sul nucleare, con l’abrogazione referendaria in Italia e il passo indietro della Germania, lo shale gas potrebbe essere pubblicizzato come sicuro e affidabile.

Tale è la dialettica utilizzata negli USA dai maggiori esperti di energia (tra cui Platts[iv]). Ad oggi, il mercato e i prodotti finanziari associati allo shale gas hanno giocato un ruolo più cogente rispetto ai governi e alle loro decisioni di politica energetica. In questo periodo di incertezza economica, i ministri sono troppo occupati a risolvere le problematiche quotidiane che concernono i propri cittadini, rispetto alle questioni di politica estera più ampie e di lungo periodo. Anche in Russia, dove sono stati localizzati tanti giacimenti (plays) di gas di scisto, Gazprom continua a dettare la politica energetica del Cremlino. Il potere concessogli da Putin dagli albori del nuovo millennio ha conferito a Gazprom un decisivo potere di influenza sulla politica estera russa. Per questo motivo, la strategia russa si è rivelata adatta a districarsi con rapidità durante questi mesi di concitate decisioni che hanno riguardato il suo principale mercato energetico. Mutatis mutandis, anche le altre compagnie nazionali europee riescono a modificare l’orientamento degli Stati che vi siedono quali azionisti di maggioranza.

Indubbiamente, nel dialogo con Bruxelles, le questioni riguardanti l’energia saranno poste all’ordine del giorno sia da parte di Washington che di Mosca. Tuttavia, le posizioni geopolitiche dei tre governi potrebbero risultare incompatibili sul gas di scisto. Uno scenario possibile, che determinerebbe una grave crisi in Europa, potrebbe vedere gli USA e i suoi giganti energetici fare pressione su Bruxelles e sui governi nazionali per ottenere una legislazione permissiva sull’estrazione dello shale gas; la Russia, nel frattempo, brandirebbe preoccupazioni per le conseguenze ambientali – in maniera strumentale, in modo da mantenere il rapporto di dipendenza con i paesi dell’Unione. L’UE potrebbe infatti decidere di implementare misure severe di controllo e concessione delle licenze di estrazione, rendendo l’avventura sotterranea ancora più rischiosa di quanto non lo sia già[v]. Una tale scelta, verrebbe dalla “vecchia” Europa: Parigi, Londra, Roma[vi] e soprattutto Berlino preferirebbero il permanere dello status quo. Il gasdotto Nord Stream è stato recentemente allacciato a Greifswald in Germania[vii] e potrebbe essere attivo in Ottobre. La politica energetica sta quindi influenzando le preferenza tedesca verso una politica estera compiacente verso gli interessi russi. E l’Unione Europea continuerebbe a giocare la partita della dipendenza bidirezionale dalle forniture di petrolio e gas naturale da Mosca[viii]. Tale soluzione isolerebbe i paesi dell’Europa Orientale e non garantirebbe né l’indipendenza energetica, né la differenziazione delle importazioni di idrocarburi.

 

Conclusioni

L’UE potrebbe commettere un grave errore di tempismo politico continuando a concentrarsi sulla diatriba tra Nabucco e South Stream, invece di cercare soluzioni economicamente sostenibili che aiutino la diffusione delle energie rinnovabili e il miglioramento dell’efficienza energetica, specialmente tra i nuovi membri.

La Polonia dovrebbe calmare l’euforia sulle prime esplorazioni e adottare una strategia coerente sulle concessioni di licenze di estrazione e produzione. Ignorare le pressioni ambientaliste per la verifica dell’impatto del fracking sulle falde acquifere potrebbe rivelarsi un errore miopico.

Il Cremlino dovrebbe finalmente emanciparsi dal tiro alla fune geopolitico che fino ad oggi è convenuto solo alle casse di Gazprom. La corsa ai mercati europei per assicurarsi consumatori di lungo periodo del gas che sarà, forse, trasportato da South Stream non è ritenuta abbastanza logica dagli esperti del settore, preoccupati dell’effettiva esistenza di volumi di offerta sufficienti.

Gli Stati Uniti potrebbero cogliere l’occasione per avvicinarsi all’Europa (e in prospettiva anche alla Russia) direttamente attraverso mezzi governativi, piuttosto che lasciare alle proprie multinazionali la capacità di forzare decisioni di politica estera ed energetica verso una determinata direzione. Sensata per il mercato nel breve periodo, questa potrebbe rivelarsi politicamente fallimentare già a medio termine.

 

* Paolo Sorbello ha ottenuto la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche dall’Università di Bologna (sede di Forlì). La sua tesi di ricerca è stata successivamente pubblicata da Lambert Academic Publishing con il titolo “The Role of Energy in Russian Foreign Policy towards Kazakhstan” (Giugno 2011). L’autore ha condotto i suoi studi presso istituzioni accademiche in Spagna, Russia e negli Stati Uniti. Ha lavorato presso importanti istituti di ricerca negli Stati Uniti e attualmente collabora con il centro di ricerca IECOB pubblicando articoli e approfondimenti su tematiche inerenti alla geopolitica dell’energia.


[i] Egli inoltre dà il nome (e molte risorse) a un gruppo di pressione che si batte per l’autosufficienza energetica degli USA: www.pickensplan.com (ultimo accesso: 10 Luglio 2011).

[ii] Ekke Overbeek , “Shale gas doesn’t make Poland the new Norway yet”, European Energy Review, 14 Giugno 2011. http://www.europeanenergyreview.eu/site/pagina.php?id=3051 (ultimo accesso: 10 Luglio 2011).

[iii] Studio dell’Aprile 2011 della Energy Information Administration (acronimo italiano: AIE) http://www.eia.gov/analysis/studies/worldshalegas/ (ultimo accesso: 10 Luglio 2011).

[iv] “The Supply-Demand Balance in the Shale Revolution”, Platts, webinar del 24 Maggio 2011.

[v] I volumi di gas di scisto citati in questo articolo si riferiscono infatti al “risked technically recoverable shale gas”, che in pratica non garantisce un risultato al 100% (la definizione possiede troppi termini condizionali per essere ritenuta completamente veritiera dagli industriali del settore).

[vi] Si veda su queste pagine l’articolo di Daniele Scalea “Shale gas vs South Stream”, 5 Dicembre 2010, http://www.eurasia-rivista.org/shale-gas-vs-south-stream-la-campagna-del-corsera/7227/ (ultimo accesso: 10 Luglio 2011).

[vii] “Nord Stream completes underwater work on gas pipeline”, RIA Novosti, 21 Giugno 2011 http://en.rian.ru/business/20110621/164745199.html (ultimo accesso: 10 Luglio 2011).

[viii] A questo proposito, Alfredo Musto, “Europa e Russia: gas-Ostpolitik”, Eurasia, 14 Dicembre 2010. http://www.eurasia-rivista.org/europa-e-russia-gas-ostpolitik/7370/ (ultimo accesso: 10 Luglio 2011).

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Kosovo: i serbi attaccano la frontiera e le basi militari della NATO, il Governo di Belgrado prende le distanze…

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Con l’invio della polizia e il blocco forzato delle frontiere il Kosovo vuole ”provocare il popolo serbo”: e’ quanto aveva affermato nei giorni scorsi il negoziatore di Belgrado nel dialogo con Pristina, Borko Stefanovic.

”Si e’ trattato di un’azione pianificata e organizzata che ha avuto come obiettivo di provocare il popolo serbo che vive nel nord del Kosovo e, ciò che e’ ancora peggio, di

pregiudicare in modo unilaterale, violento e provocatorio i risultati del dialogo che stiamo conducendo con Pristina”, proseguiva Stefanovic alla tv nazionale serba Rts.

”Hanno voluto creare una situazione in cui non c’e’ bisogno di negoziare”, ha aggiunto.

Le sue dure dichiarazioni erano seguite agli scontri verificatisi nella regione a maggioranza serba nel nord del Kosovo quando Pristina aveva inviato forze speciali per chiudere i due valichi di frontiera con la Serbia.

La decisione di Pristina di imporre l’embargo sulle merci serbe, importate soprattutto dalla minoranza serbo- kosovara, è stata presa in risposta all’embargo della Serbia sui prodotti “made in Kosovo”, la cui legittimità non è riconosciuta da Belgrado.

A causa di questa situazione l’ultima sessione di fine luglio dei negoziati fra Serbia e Kosovo e’ infatti stata rimandata al prossimo settembre su richiesta del mediatore dell’Unione europea, Robert Coope, vista l’impossibilita’ di chiudere il dossier.

Subito dopo l’appello di Belgrado le forze speciali kosovare si erano ritirate ma dopo poche ore la polizia di Pristina e’ tornata ad occupare il valico di Brnjak, come riferito all’agenzia “Beta” da un testimone oculare, secondo il quale gli agenti delle forze speciali hanno sparato per liberare la strada bloccata dalla popolazione serba.

Secondo il testimone ci sarebbero stati alcuni feriti.

L’annuncio del ritiro era arrivato verso l’una.

”E’ il primo passo verso l’adempimento delle richieste di Belgrado per prevenire un’escalation delle tensioni'”, aveva detto all’ agenzia serba “Tanjug”, il ministro serbo per il Kosovo Goran Bogdanovic.

Il ritiro sembrava il risultato delle trattative proseguite per tutta la mattinata tra lo stesso Bogdanovic, il capo del team negoziale di Belgrado con Pristina Borislav Stefanovic e le autorità kosovare, con la mediazione del comandante delle forze internazionali nel Kosovo Kfor Gerhard Buhler.

Dopo essere stati presi in giro da tutti, a quel punto è scattata la controffensiva dei serbi del Nord Kosovo: un poliziotto è morto, colpito da un proiettile e altri quattro sono rimasti feriti, uno per l’esplosione di un ordigno e altri tre per un lancio di sassi.

Secondo l’agenzia “Tanjug”, l’incendio è divampato verso le 19 ad opera di un gruppo di

giovani di Kosovska Mitrovica, la città del nord del Kosovo a maggioranza serba, che con il volto coperto da passamontagna hanno distrutto con le ruspe i prefabbricati che contenevano gli uffici della polizia di frontiera kosovara e dei doganieri.

Il gruppo si è quindi diretto verso le forze Kfor (le forze di sicurezza della Nato in Kosovo) che hanno aperto il fuoco, ha detto il giornalista della tv serba “B92” in un reportage in diretta dal valico di Jarinje.

Inoltre un centinaio di cittadini serbo-kosovari hanno circondato la base Kfor con sede nel villaggio di Leposavic  e secondo l’agenzia “Beta” sono state lanciate bottiglie incendiarie contro il campo che ospita i militari USA.

Il comandante della Kfor, generale Erhard Buhler, ha detto che la situazione e’ tornata sotto controllo in tarda serata, e che gli estremisti serbi hanno attaccato i militari del contingente di pace con ”razzi e colpi d’arma da fuoco”.

Ieri sera si e’ registrata la ferma condanna da parte dell’Alto Rappresentante della politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, che ha parlato di ”violenze inaccettabili” ed ha detto di aver parlato al telefono con il presidente serbo, Boris Tadic – il quale ha prontamente condannato l’accaduto – e con il premier kosovaro, Hashim Thaci, invitandoli a tornare al dialogo.

Il presidente Tadic, stigmatizzando l’accaduto ha invitato la minoranza serba del Kosovo a mettere un freno alle violenze: ”Gli hooligan – ha detto – non fanno gli interessi ne’ dei serbi del Kosovo ne’ della Serbia”.

Sarebbe curioso sapere da Tadic, però, quali interessi stia tutelando l’attuale Governo di Belgrado, che subisce umiliazioni una dopo l’altra, quale sia la sua strategia per riguadagnare la sovranità sul Kosovo e Metohija e quali provvedimenti voglia intraprendere per salvaguardare l’incolumità dei serbi che vivono nella provincia.

Bisognerebbe sapere, ad esempio, perché Tadic non invia un contingente di soldati serbi nel Kosmet a proteggere la propria minoranza, così come previsto dalla Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite tuttora in vigore.

Logico che i serbi del Kosovo lancino poi appelli a Mosca e a Vladimir Putin per un intervento russo nella regione, se la Serbia si dimostra incapace di difenderli.

Ancora più ridicolo il capo del team negoziale di Belgrado con Pristina, Borislav

Stefanovic, secondo cui l’incendio e’ un ”atto criminale commesso quando eravamo molto

vicini a una soluzione, un colpo alle speranze dei serbi del Nord del Kosovo”.

Peccato che, come riportato sopra, le negoziazioni si fossero interrotte già prima degli incidenti a causa dell’impossibilità di raggiungere un accordo, anche perché sia le autorità di Pristina sia la diplomazia statunitense hanno sempre ribadito che il Nord del Kosovo dovrà prima o poi tornare sotto il controllo albanese, soluzione che ai serbi ovviamente non sta bene.

Domani, della situazione si occuperanno anche le Nazioni Unite con una riunione a porte chiuse del Consiglio di sicurezza, che ha accettato la richiesta di una seduta urgente

arrivata oggi da Belgrado.

I Quindici si riuniranno a porte chiuse, tentando di definire una posizione comune

sull’intervento della polizia kosovara per portare avanti un boicottaggio di prodotti serbi, deciso da Pristina in risposta al blocco imposto dalla Serbia di prodotti kosovari.

La Russia, unica vera alleata della Serbia (situazione che l’attuale Governo di Belgrado sembra non aver ancora ben recepito), aveva appoggiato la richiesta di Belgrado per una riunione urgente, mentre Usa e Gran Bretagna avrebbero preferito aspettare la consueta riunione trimestrale sul Kosovo.

Alla fine è stato trovato un compromesso per convocare la riunione, ma a porte chiuse.

Per quanto riguarda il nostro paese, a confermare che l’Italia non tornerà ad assumere il comando della K-For (ora assegnato ai tedeschi) è stato il sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga, ammettendo che Roma era pronta ad accettare l’invito di Usa e

Serbia solo se il comando non avesse comportato ‘un incremento degli oneri finanziari’. Condizione impossibile da realizzare visto che la leadership delle truppe della Nato in Kosovo richiede l’invio di altri 200 militari al quartier generale di Pristina.

L’Italia ha da pochi mesi quasi dimezzato i 2.200 militari presenti nella ex provincia serba proclamatisi indipendente e punta a ridurli nel 2011 a 650 per compensare l’aumento delle truppe in Afghanistan e il mantenimento degli impegni in Libano.

Cossiga ha precisato che l’Italia manterrà il comando del settore Nord-Ovest (uno dei due nei quali sarà diviso il Kosovo contro gli attuali cinque) continuerà a prender parte alla missione civile Eulex e manterrà la guida del “Kosovo security sector reform”, l’organismo che si occupa fra l’altro di addestrare le forze di sicurezza locali.

Ovviamente anche le autorità albanesi, che godono dell’impunità garantita dalle truppe di occupazione della NATO, non hanno perso occasione per ribadire che: “Non ci sarà alcun passo indietro da parte nostra.  Le misure di reciprocità con la Serbia verranno fatte rispettare in tutti i valichi di frontiera e dureranno fino a quando Belgrado non cambierà il suo atteggiamento”.

Lo ha dichiarato il premier del Kosovo Hashim Thaci durante una seduta straordinaria del Parlamento kosovaro, riferendosi alla crisi tra Pristina e Belgrado nata nei giorni scorsi dal reciproco boicottaggio delle importazioni che ha avuto come conseguenza la decisione di Pristina di schierare al confine la propria polizia per vigilare sull’imposizione dell’embargo.

Ora la situazione pare essere tornata alla calma.

Il comandante di Kfor, generale Erhard Bubler, ha fatto sapere che il valico al momento e’ chiuso dopo essere stato gravemente danneggiato.

Kfor ha il controllo dei valichi doganali di Jarinje (Porta 1) e Brnjak (Porta 31) e, spiega in un comunicato, ”continua a dispiegare le sue truppe in tutto il nord (del Kosovo), al fine di garantire libertà e sicurezza” (tranne che ai serbi ovviamente).

La situazione ”e’ generalmente calma, con alcune tensioni occasionali”, si fa sapere e la Kfor ha specificato inoltre di aver instaurato un regime molto rigoroso ai due posti di frontiera consentendo il passaggio solo a ”piccoli veicoli privati”, mentre non sarà autorizzato il passaggio di camion che potrebbero trasportare armi o altro materiale vietato.

Come avevamo annunciato nei mesi scorsi, il problema del Nord Kosovo rimane la questione fondamentale da affrontare per le forze atlantiste che vogliono “normalizzare” la situazione nella regione; vedremo ora fino a che punto queste saranno disposte a sfidare la resistenza di un popolo che non ha davvero più nulla da perdere.

Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, è coautore di “La lotta per il Kosovo”, All’insegna del Veltro, Parma, 2007 e autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Noctua, Molfetta, 2008.

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Miguel Ángel Barrios, Perón Y El Peronismo En El Sistema-mundo Del Siglo XXI

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Miguel Ángel Barrios
Perón Y El Peronismo En El Sistema-mundo Del Siglo XXI

Editorial BIBLOS, Buenos Aires 2008

ISBN: 9789507866678

Frente al desafío del tercer milenio, bueno es volver a prestar oídos a aquellos líderes que con su pensamiento y con su acción nos han dejado enseñanzas en las que aún hoy podemos abrevar, no como reiteración mecánica de acciones o conceptos que pertenecen al pasado sino como instrumentos de navegación que nos impidan errar el camino. Como demuestra en forma contundente Miguel Ángel Barrios en este libro, podemos colocar a Juan Perón, con su teoría del continentalismo, como el primer teórico y político del realismo de la periferia, recreando desde una dinámica innovadora la actualidad del líder justicialista en las exigencias nuevas que emanan de la globalización. Es, desde esta perspectiva, un libro imprescindible para los dirigentes políticos y sociales actuales, diplomáticos, militares, académicos, estudiantes y actores de la sociedad civil, que deben afrontar los problemas de sus comunidades en tiempos de globalización, y que deciden no tomar el fácil camino de servir a los poderosos sino el infinitamente más arduo de ponerse al servicio de los pueblos. Constituye una gran ayuda para superar la queja y dotarla de un contenido político estratégico, un aporte al necesario esfuerzo por superar los límites históricos de las políticas localistas y para brindarnos un pensamiento universalista para poder afrontar este nuevo tiempo de los Estados-continentes. Tarea ardua e inconclusa la unidad de Nuestra América, resulta el único camino posible si pretendemos conducir nuestros propios destinos. Miguel Ángel Barrios logra en esta obra aunar el análisis teórico práctico con un grado de contemporaneidad convirtiendo a este libro en punto de inflexión en los estudios de Perón y el peronismo en los marcos de la mundialización y en nuestro compromiso con la integración latinoamericana a partir del continentalismo.

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La contemporaneità di Perón nel XXI Secolo

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Il 2011 cominciava con la cosiddetta “Primavera Araba”, fenomeno sociale scaturito dall’influenza mondiale che, oltre alle sue ragioni interne ed esterne, dove si combina l’aumento del cibo, le reti sociali e i giovani, l’interesse imperiale per il petrolio e altre varianti geopolitiche, indica in modo schiacciante che le repubbliche totalitarie o monarchie tributarie d’Occidente, inventate dalla geopolitica del dopoguerra, nel loro seno non contengono le aspirazioni democratiche del mondo arabo.

D’altro canto, alcuni mesi più tardi, il movimento degli “sdegnati” dalla Spagna si sposta in tutta Europa, palesando l’esaurimento non solo di un modello d’integrazione che voleva esportarsi come “modello di cosmopolitismo e di diritto”, ma anche di un sistema bipartito di natura liberal-conservatore-socialdemocratico, funzionale agli USA.  Gli Aznar, i Zapatero o i Blair, non riescono a contenere più una società esaurita, culla dell’enciclopedismo, incapace di offrire qualcosa al mondo. Gli Stati Uniti continuano ad essere una Repubblica imperiale, secondo quanto afferma Aron, che non ha nulla a che fare con il paradigma del “fine della storia” di Fukuyama, con un debito di 14 miliardi di dollari.

La Cina di Confucio, l’India di Ghandi, la Russia di Pietro il Grande, iniziano a schierarsi nella multipolarità emergente, con la forza intangibile che sorge da una forza altrettanto inalienabile: le loro culture. E cosa sta accadendo in America latina? O detto in altre parole, nell’America meridionale?

Nell’America meridionale si fa strada la forza dell’integrazione con il Mercosur, con combinazioni tipo Mercosur-Comunidad Andina che rafforza l’UNASUR e, ora, in questo mese di luglio, con la nascita del CELAC-Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi. Tutti, in sostanza, figli dell’itinerario del Congresso Bolivariano del 1826.

Ma, con un valore aggiunto, abbiamo il pensiero che ci dà autocoscienza e totalità alla nostra unicità, e che è il pensiero continentale di Juan Domingo Perón; per questa ragione costituisce un classico, perché sarà sempre contemporaneo. Da qui l’importanza di analizzarlo, di ripensarlo, per l’azione e non per il ricordo astratto.

È giunta l’ora di portare a termine il suo massimo lascito, lo Stato Continentale, ed è qui che Perón offre il paradigma ideologico che non riesce a trovare l’Europa, il mondo arabo e gli USA, Perón è un uomo del XXI e XXII secolo.

È, senza ombra di dubbio, il primo teorico e politico della nostra autonomia continentale sudamericana e latinoamericana, nonostante l’uomo politico abbia messo in ombra quello teorico e, bisogna aggiungere che, nelle nostre Università, Accademie militari e diplomatiche e persino nei nostri quadri dirigenziali, non si studia in modo approfondito. È responsabilità del mondo accademico riscattare Perón ed è responsabilità della politica, interrogare permanentemente la sua contemporaneità. È un debito che abbiamo in sospeso e, attualmente, nel suo anniversario, bisogna prendere questo compromesso che va oltre l’impiego retorico della politica. Lui appartiene all’America latina ed è un modello che ci consolida nel mondo.

Nel sistema mondo del XXI secolo sono quattro le anticipazioni strategiche di Perón che tornano alla luce e con forza:

–         In primo luogo, il valore delle derrate alimentari e delle risorse naturali. Oggi, senza dubbio, ciò è indiscutibile nel mondo, le guerre per le risorse e la potenzialità delle nostre materie prime ci conferiscono una piazzaforte inedita. Questo aspetto non lo videro nemmeno la CEPAL e lo strutturalismo latinoamericano.

–         In secondo luogo, la crescita e la necessità, in termini pratici e teorici, di organizzare il mondo della produzione sotto una prospettiva ecologica. L’agenda ambientale è una priorità nei rapporti internazionali e, quando Perón lo espose, più di uno si sorprese dell’inquietudine di un leader che si trovava fuori dai margini della “realtà”.

–         In terzo luogo, l’idea e la pratica del perfezionamento e dell’approfondimento della democrazia mediante le libere organizzazioni del popolo che conferiscono alla società – e non solo al governo, ai partiti politici e allo Stato – partecipazione e potere nelle decisioni che interessano gli insiemi sociali. È quello che nell’attualità si sta dibattendo nel mondo e che nel Congresso di Filosofia del 1949 si discusse, proponendo il progetto di una Comunità Organizzata e la sua relativa democrazia sociale e partecipativa e non partitocratica. La democrazia partecipativa va oltre la democrazia rappresentativa e, dalle “democrazie paesane” dei nostri “caudillos” del XIX secolo, costituisce un contributo dell’America latina alla democrazia.

–         E, infine, anche se è la più importante e la meno conosciuta, l’idea che la storia sia una serie successiva d’integrazioni.

L’idea continentale di Perón, vale a dire, il suo convincimento che siamo entrati nella fase dell’universalismo ma che, per raggiungerlo, dobbiamo far perno su quest’idea, nella transizione dell’umanità dalla tribù ai popoli continente. Ciò si può verificare soltanto tramite l’alleanza argentina – brasiliana nell’America del Sud. È un’idea continentale del subcontinente – l’Unasur nell’attualità rappresenta la strada da percorrere.

Egli si dimostrava del tutto scettico con l’idea di un progetto di mercato interno, poiché considerava che le nostre economie da sole siano “incomplete”. Nell’era dei “popoli continente” l’imperativo “uniti o dominati” non era un semplice slogan, bensì l’unica interpretazione possibile affinché l’America del Sud compia il suo destino di grandezza storica.

Possiamo dire che l’idea continentale sudamericana di Perón non è più un sogno, è la realtà, vale a dire, “l’unica verità è la realtà”, il che vuol dire che è l’unico cammino per ridisegnare lo spazio della nostra sovranità nel sistema mondo.

La conclusione più contundente proveniente dal polo antitetico alla contemporaneità di Perón sono le dichiarazioni rilasciate dal Senato americano nel 2005 dall’allora segretario di stato, Condoleeza Rice: “Affinché il Sud del continente possa essere assimilato, si deve allontanare da Perón. Sì, da quello screditato demagogo seminazista argentino chiamato Juan Domingo Perón”. Anche se la Rice non fa altro che continuare il percorso tracciato nel 1982 dall’ex ministra britannica Margaret Thatcher, quando questa asserì: “La colpa di tutto ciò ce l’ha Perón”.

*Miguel Ángel Barrios, Dott. in scienze politiche, autore del libro: Perón Y El Peronismo En El Sistema-mundo Del Siglo XXI, e curatore del Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Greopolitica

(trad. di V. Paglione)

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